Un momento della campagna elettorale di Donald Trump (foto LaPresse)

Il paradosso di Trump nel suo passaggio da bully a fake

Giuliano Ferrara

Se il presidente fake conferma il candidato bully la cosa assume una doppia faccia. Buona per i risultati, pessima per il modello di democrazia moderna prodotto dagli Stati Uniti in due secoli di storia. Non sono dettagli.

Qui a New York, tranne la famiglia Trump, sono tutti depressi. I liberal, dico, che sono una sterminata maggioranza non solo morale o antropologica. I miei amici del popolo criptotrumpista dell’Upper West Side, il bouquiniste di strada Joe o il portiere maltese del mio building, e anche qualche signorotto disincantato con redditi da paura, se la cavano dicendo che quello della campagna elettorale è il solito bla bla bla, l’importante è che si cambi registro e i pericoli sono infinitamente minori di quanto non si dica. Ma sul bus 104 che scorre nel fiume di Broadway una signora col cerchietto e capelli serenamente bianchi, di quelle perfette per la National Public Radio (Radiotre al cubo, senza Pasolini), fa della pedagogia buona raccontando alla nipotina bionda, bella e dagli occhi mobili e molto espressivi, la storia della buona Hillary e del cattivo, del bullo che l’ha umiliata. E a uno screening nell’East Village di un bel film natalizio sugli homeless, i tossici, gli emarginati, i musi lunghi spazzano il pavimento, senti frasi estenuate e nevrotiche sul fatto che gli americani non hanno mai conosciuto il fascismo e il comunismo, e adesso gli tocca. Unica consolazione: New York e la California, senza le quali l’America diventa uno strapaese folk, faranno da sé, e il sindaco De Blasio ha detto che non fornirà gli elenchi dei clandestini alla banda Giuliani, e se verranno a cercarli distruggerà gli archivi, accipicchia, come se Obama non avesse rimpatriato zitto zitto due milioni e settecentomila illegali (2.700.000), come se Trump.fake non avesse derubricato da presidente eletto la deportazione di massa promessa nei comizi al rimpatrio di 2 o 3 milioni di stranieri non commendevoli, niente di nuovo o di fascista.

 

 

La grande questione, depressione a parte, è quella dei due Donald, il candidato (Trump.bully) e il presidente (Trump.fake). E nella faccenda si nasconde un paradosso. Vediamo. Il sistema istituzionale non permette al presidente di fare quello che gli pare, neanche con un Congresso in maggioranza del suo partito e con una Corte suprema conservatrice (le nozze gay sono passate quando il formidabile giudice conservatore Antonin Scalia era vivo, in una corte per lo più già forgiata dai destri sociali, e le Camere sono un establishment che spesso fa per sé e i poteri statali e locali sono una cosa seria in una federazione). Oltre tutto, Trump è uomo dei New York values, come disse per colpirlo a morte il povero Ted Cruz, come avevamo raccontato qui per tempo spiegando l’intensa relazione mondana intrattenuta da The Donald con la sua frivola ma talentuosa cronista e frequente intervistatrice, e amica, Maureen Dowd del New York Times.

Dice di essere contro l’aborto, e purtroppo viene da ridere (non si dovrebbe); dice che la questione delle nozze gay è settled, sistemata una volta per tutte, e viene di nuovo da ridere. Insomma. Intervistato alla grande dalla Cbs per “20 minutes” si presenta con il presepe familiare (Donald Jr., Eric, Ivanka, Tiffany, mentre Barron, che è piccolo, era già a letto). La performance è perfetta, rassicurante, nessuno deve avere paura, il muro è un fence, una barriera che già c’è, peraltro, i deportati saranno un numero di delinquenti analogo a quello scacciato dal presidente buono e multiculturale, la bella Melania sorveglia il marito e gli dice quando esagera, anche e poi lui fa quello che crede, e ci mancherebbe, eccetera. Trump.fake ha della sua campagna elettorale da teppista assolutamente niente o quasi niente. Poi farcisce di lobbisti il suo staff,  dice che non gli piacciono ma sono disponibili solo quelli a Washington, d’ho!, e mette un vecchio caro arnese della politica pura al posto di numero due, appaiandogli come stratega quel Bannon che dicono suprematista e razzista, ma prima di fare quattrini con Breitbart News li faceva come banchiere di Goldman Sachs. Il castigo di Dio si presenta come un timorato di Dio e come un family man pensoso dell’unità della patria. Non abbiate paura, dice.

Uno può crederci o no, ma la faccenda si complica leggendo Paul Krugman, che non si è del tutto riavuto dal trauma che lo aveva stordito, e nemmeno dal Nobel per l’Economia, ma fa parte del giro degli informati intelligenti.

E che dice Krugman? Dice che non ci saranno recessione né depressione, a breve, e che i tagli fiscali e l’attivismo sulle infrastrutture da ricostruire, e Trump è del ramo, stimoleranno economia e mercati e crescita. Fuck, sembra aggiungere, questo a breve, e come diceva Keynes, nel lungo tempo saremo tutti morti. L’ipotesi di un successo di Trump.fake come presidente repubblicano convenzionale, che magari anche in politica estera stipulerà qualche deal a lui favorevole senza rovesciare il tavolo, non si può escludere. Si può essere depressi ma lucidi, come vedete. Nessuna certezza, ma non si può escludere, ok?

Solo che, ecco il paradosso, se Trump il presidente non fa casino, si limita a qualche tweet fuori ordinanza, a qualche baruffa da entertainer, il tutto sempre in via d’ipotesi oggi pencolante tra realtà e irrealtà, il risultato sarà la legittimazione a posteriori di Trump.bully, cioè di un modello unamerican, extrademocratico, non liberale di conduzione della lotta politica. Per fare, bisogna menare e menare di brutto, comprese le chiacchiere da spogliatoio e qualche vera schifezza imperdonabile. Se il presidente fake conferma il candidato bully, e dopo averlo colpito sventra l’establishment e il suo linguaggio mentre riesce a usarlo per scopi utili in economia e in politica, anche internazionale, la cosa assume una doppia faccia. Buona per i risultati, e non sarebbe un dettaglio, pessima per il modello di democrazia moderna che la struttura costituzionale degli Stati Uniti ha prodotto in oltre due secoli di storia, e non sarebbe un dettaglio. E qui entra il problema dell’opinione pubblica e della stampa, di cui qualche riga domani, a ciglio asciutto ma non perché non ci sia da piangere.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.