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Imparare la lezione di Thaler è molto utile, anche per fermare chi vuole applicarla male

Carlo Stagnaro

Le persone in carne e ossa fanno molte cose stupide, non sono affatto come il mitico homo oeconomicus, ma anche loro se alzi il prezzo dei pomodori comprano meno pomodori

Perché le persone si comportano come si comportano? E come compiono le loro scelte? Aver posto in modo esplicito queste domande, più ancora che aver contribuito a trovare delle risposte, è valso il premio Nobel per l’economia a Richard Thaler. Un riconoscimento senza dubbio meritato – visto che lo studioso della Chicago Booth School of Business è stato tra i primi e i più efficaci nel seminare un campo che rimane in larga parte inesplorato. Tuttavia, nel raccontare Thaler occorre prestare molta attenzione a non mischiare la letteratura germinata dai suoi lavori con le potenziali implicazioni di policy e, soprattutto, con l’uso politico a cui essa si presta. Molti hanno lodato Thaler come se fosse un outsider che ha abbattuto un fantomatico principio di razionalità alla base del mainstream. Secondo questa narrazione, egli avrebbe costretto gli economisti a guardare gli uomini per come sono realmente: non freddi massimizzatori di utilità, ma individui che compiono scelte sulla base di una razionalità limitata e zoppicante.

 

Il fatto è che nessun economista crede davvero nella figura stilizzata dell’homo oeconomicus. L’ipotesi di razionalità è una semplificazione, in molti casi, accettabile: come ha scritto John Cochrane, “le persone fanno un sacco di cose stupide. Nondimeno, quando alzi il prezzo dei pomodori, comprano meno pomodori, proprio come se dei massimizzatori di utilità fossero entrati dal fruttivendolo”. A volte, insomma, le semplificazioni sono ragionevoli rispetto agli obiettivi della ricerca: tutti gli scienziati le fanno. Per esempio, nessuno si sognerebbe di criticare un fisico che, per descrivere la traiettoria di un proiettile dalla bocca del cannone fino alla parete di fronte, ignorasse gli effetti dell’attrito. In altri casi queste semplificazioni non sono lecite: gli economisti (e i fisici) lo sanno benissimo e si comportano di conseguenza. Un primo merito di Thaler – questo sì, indiscutibile – è aver aiutato a comprendere quando e sotto quali condizioni il comportamento degli individui si discosta dal paradigma della razionalità. La sua rilevanza scientifica, insomma, non sta nell’aver affisso 95 tesi fuori dalla Torre d’Avorio dichiarando così uno scisma dalla chiesa dell’economia: sta piuttosto nell’aver esteso la comprensione del comportamento umano, che è esattamente la job description dell’economista.

 

Una conseguenza molto rilevante della commistione tra economia e psicologia è che il modo in cui le scelte vengono presentate può avere un effetto sul loro esito. Da qui nasce la teoria del “nudge” (orribilmente tradotto in italiano come “spinta gentile”). Il nudge ha forti ricadute sul marketing delle imprese (provate a chiedervi perché certi beni costano 999 euro anziché 1.000) e anche sulle politiche pubbliche. L’intuizione di Thaler (e del suo co-autore Cass Sunstein) è che taluni obiettivi ritenuti socialmente desiderabili possono essere perseguiti in modo più efficiente attraverso incentivi comportamentali anziché strumenti quali tasse e divieti. Non si tratta, a ben guardare, di una scoperta sensazionale: la novità sta nel tentativo di formalizzare e sistematizzare il ricorso alle “spintarelle”, mettendo la teoria al servizio della policy.

 

Spesso, i governi fanno “nudging” in modo inconsapevole. Per esempio, quando in Italia venne avviata la liberalizzazione dei mercati dell’energia, si stabilì che i consumatori sarebbero stati riforniti di default attraverso una tariffa regolamentata, chiamata “maggior tutela”. Non serve essere Thaler (ma è utile averlo letto) per spiegare perché molti hanno esitato prima di avventurarsi sul libero mercato: è il modo stesso in cui il servizio è stato impostato, a rappresentare un disincentivo. Ed è per questo che il Ddl Concorrenza, da poco entrato in vigore, persegue il completamento della liberalizzazione eliminando la distorsione. La scelta della terminologia e aver qualificato la maggior tutela come opzione automatica hanno determinato il disegno di mercato risultante, e azzoppato la concorrenza. Per aiutare i cittadini a catturarne i benefici, occorre rovesciare la logica e spingerli verso il mercato: è la competizione, non la regolamentazione, a garantirne la tutela.

 

Un conto, insomma, è la lezione metodologica del Thaler-economista; altro è dedurne prescrizioni politiche come se vi fosse un automatismo. Questa è una valutazione politica che esula dai meriti del Professor Thaler, e attiene piuttosto alla preferenze ideologiche di chi imbraccia l’armamentario predisposto da Mister Richard. Altro tema ancora è il salto logico che separa l’osservazione che gli individui si comportano spesso in modo irrazionale (e dunque vanno “spinti”) dall’assunzione che i decisori politici non lo fanno (e dunque meritano la nostra fiducia quando decidono di “spingere”). Avremo imparato la lezione di Thaler quando sapremo fare questa distinzione. In fondo, per definire, prevenire e indirizzare l’irrazionalità, bisogna ancora credere che gli esseri umani siano capaci di un pensiero razionale.

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