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Perché per dare lavoro ai giovani l'Italia deve guardare alla Germania

Stefano Cianciotta

Quali sono le ragioni che continuano a determinano il ritardo italiano? E quali policy mettere in campo per ridurre questo gap, insostenibile proprio adesso che l’Europa sembra avere invertito finalmente la rotta?

Nel 2016 le imprese tedesche hanno aumentato gli investimenti in robotica del 36% rispetto all’anno precedente. Eppure la disoccupazione giovanile è rimasta su livelli fisiologici, non superiore al 6%, percentuali simili a quelle delle province di Bergamo e Brescia, dove il tasso di occupazione giovanile è tra i più elevati in Europa.

 

I robot, insomma, non tolgono il lavoro. O almeno non sostituiscono gli impieghi ripetitivi e facilmente riproducibili anche dagli algoritmi, come potrebbe accadere proprio in Italia che, secondo l’Oxford Martin School, abbonda di professioni impiegatizie e nei prossimi venti anni il 56% di esse rischia di scomparire.

  

Ieri l’indagine sull'occupazione e sugli sviluppi sociali in Europa della Commissione Europa ci ha ricordato che la percentuale italiana dei NEET (i 2,3 milioni di ragazzi che non studiano e né cercano lavoro), è dieci punti superiore alla media europea e che il tasso di disoccupazione dei giovani fra i 15 e i 24 anni in Italia è al 37,8%.

 

Dovremmo chiederci, allora, non solo quali sono le ragioni che continuano a determinano il ritardo italiano, ma soprattutto individuare quali policy mettere in campo per ridurre questo gap, insostenibile proprio adesso che l’Europa sembra avere invertito finalmente la rotta.   

 

Con più di 234 milioni di lavoratori, infatti, il tasso di occupazione europeo non è mai stato così elevato come oggi e la disoccupazione è al livello più basso dal dicembre 2008. Tuttavia, i giovani hanno sempre più difficoltà nell'entrare nel mercato del lavoro e, quando ci riescono, si trovano spesso in forme di occupazione atipiche e precarie come i contratti temporanei, che possono comportare una minore copertura previdenziale.

 

In Italia, come detto, 2,3 milioni di ragazzi dai 15 ai 24 anni hanno scelto di non studiare e neppure provare a cercare un lavoro. Eppure la globalizzazione, la fuga dei cervelli, la crisi, i robot sono diventati l’alibi per proteggere ancora di più i nostri figli, destinandoli così alla paralisi e alla emarginazione.

 

L’automazione è entrata nel mondo del lavoro da molti decenni e il primo bancomat ha segnato inevitabilmente l’inizio della fine del posto di lavoro più ambito fino a venti anni fa: il bancario. Proprio l’evoluzione della professione di bancario sta determinando anche una innovazione sotto il profilo contrattuale, con una nuova tipologia ibrida per i neo assunti, che lavorano due giorni alla settimana con contratto a tempo indeterminato e per i restanti tre a tempo determinato.

   

Secondo uno studio McKinsey, circa il 40% della disoccupazione giovanile è attribuibile alla divergenza tra profili richiesti e competenze dei giovani.

   

La disoccupazione giovanile, quindi, non è solo legata ai cicli economici ma anche a una significativa distanza tra domanda e offerta di professionalità, che in Italia deriva da un persistente scarso dialogo tra il sistema educativo e il tessuto produttivo.

 

In Inghilterra le Università adeguano ogni anno l’offerta formativa ai cambiamenti continui del mercato del lavoro.

 

La bassa qualità del lavoro in Italia conferma quanto abbiamo scritto altre volte: da noi la distanza tra tutto il sistema formativo e il lavoro è troppo elevata, e la precarietà e la ripetitività hanno alla base la scarsa competenza del lavoratore.  

 

La scuola e l’Università non possono più essere istituzioni separate dal resto della società, ed in particolare dal mercato del lavoro, ma oggi più che mai devono essere integrate come spazio dove allenare costantemente curiosità, creatività e intraprendenza, oltre che apprendere nuove conoscenze ed esperienze.

 

Riprogettare le politiche industriali significa riprogettare il sistema della formazione.   

 

Gli stessi modelli organizzativi sono indirizzati a stimolare il potere creativo ed imprenditoriale dei dipendenti, che non sono più tali, cioè non dipendono più da cariche superiori o da azionisti, ma sono una parte attiva dell’organizzazione.

 

Il problema italiano è che la produttività è ferma al palo da oltre un ventennio, e nel confronto dal 1985 ad oggi l’Italia è nella fascia dei Paesi Ue con la crescita più bassa, nonostante ci fossero state normative che hanno favorito l’uscita anticipata dal mercato del lavoro, e quindi di fatto il turnover occupazionale, che nei fatti però non si è verificato a discapito dei giovani.

 

L’Italia, poi, dal 1997 è stato il Paese Ue che meno ha investito risorse pubbliche su ricerca e sviluppo, come ha osservato un recente studio della Fondazione Bosch Stiftung.

 

Per agevolare l’ingresso nel mercato del lavoro dei giovani l’Italia deve puntare sul modello di istruzione duale tedesco, fondato su un forte apprendistato in integrazione tra scuola e lavoro e su un'istruzione superiore a carattere professionalizzante, estesa fino al ciclo terziario e post terziario.

 

Entrambe queste due fondamentali dimensioni in Italia sono state colpevolmente trascurate, per ragioni innanzitutto culturali, perché la manualità era stata considerata un discrimine da una certa parte intellettuale e politica. E solo negli ultimi anni iniziamo a recuperare il terreno. Il risultato di questo approccio è il più basso numero di giovani che in Germania abbandonano la scuola e che rimangono disoccupati, mentre il nostro sistema non riesce a dotarli degli strumenti necessari.

 

In Germania il numero di apprendisti è tre volte superiore ai nostri 450mila, e il 44% degli iscritti universitari tedeschi rispetto al totale frequenta Fachhochschulen (Università di scienze applicate) e altre istituzioni professionalizzanti, mentre da noi a frequentare corsi accademici professionalizzanti è solo lo 0,4% degli studenti universitari. In Italia solo il 4% dei giovani tra 15 e 29 anni alternano studio e lavoro. In Germania questa percentuale supera abbondantemente il 20%.

 

Ci piacerebbe, poi, che la formazione, l’istruzione e il lavoro (perché non riunirle sotto lo stesso Ministero?) diventassero un unico tema nell’agenda della campagna elettorale. Investire sulla qualità del sistema formativo significa tornare a fare i conti con le parole speranza, futuro e sogno.

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