Una manifestazione dei lavoratori Atac a Roma (foto LaPresse)

Senza concorrenza l'Italia è fottuta

Claudio Cerasa

L’Italia anti immobilismo ha un’occasione per dare un ceffone al partito unico della rendita: sostenere il referendum radicale sul trasporto romano e dar voce a un paese che sogna più efficienza per combattere il moralismo

Senza competizione, non c’è efficienza. Senza efficienza, non c’è risparmio. Senza risparmio, non c’è investimento. Senza investimento, non c’è futuro. E senza concorrenza, purtroppo, non c’è alcuna speranza di non ritrovarsi presto con un paese fottuto. Negli ultimi tempi, e purtroppo anche negli ultimi giorni, la politica italiana ha mostrato a più livelli un’incredibile e cronica incapacità di trovare gli strumenti giusti per schierarsi senza tentennamenti contro un partito unico, temibile e trasversale, che da anni impedisce al nostro paese di crescere come dovrebbe e di correre come potrebbe. Quel partito – in Parlamento, nei comuni, nelle regioni, nei circoli, nelle sezioni, nei meet-up – lo vediamo ogni giorno schierato tanto a difesa delle rendite di posizione, delle corporazioni, degli interessi particolari quanto all’attacco delle politiche di risparmio, di efficienza, di libera impresa e per comodità e assonanza potremmo definirlo attraverso una sigla che ci sembra appropriata e che potrebbe inquadrare con efficacia la giusta dimensione nella quale andrebbe collocata l’Italia dell’immobilismo: AC. Dove per AC si intende non l’epoca precedente alla nascita di Cristo ma l’epoca nascente dominata dal partito dell’Anti Concorrenza. La novità di questi giorni, che c’è, non è che la politica ha scelto di combattere con le giuste energie il partito unico dell’Anti Concorrenza. Il ddl concorrenza, purtroppo, aspetta da 850 giorni di essere approvato e il Partito democratico (giustamente redarguito ieri dal ministro Carlo Calenda) ha scelto di rallentarne ancora il percorso presentando improvvisamente nuovi emendamenti in Parlamento. Il decreto inserito la scorsa settimana nella manovrina di correzione dei conti pubblici, purtroppo, ha messo fuori legge FlixBus, società che offre collegamenti low cost in pullman, e che a ottobre, salvo sorprese che non ci dovrebbero essere, dovrà abbandonare l’Italia. 

 

I sindaci delle grandi città, compresi quelli che in teoria dovrebbero combattere le rendite di posizione, ma fateci ridere per favore, ogni volta che si trovano a dover decidere se stare dalla parte dell’apertura o dalla parte della chiusura scelgono sistematicamente di dribblare i problemi schierandosi a favore della conservazione (niente liberalizzazione dei taxi, niente permessi a Uber, guerra contro la Bolkesetin, lotta dura e pura contro Airbnb, difesa degli ambulanti). La novità sul partito unico dell’Anti Concorrenza non viene dunque dal Parlamento, dal governo, dai comuni o dalle regioni ma arriva da un’iniziativa formidabile organizzata dai Radicali Italiani (e in particolare da Riccardo Magi) che merita un sostegno pieno e sincero. L’iniziativa riguarda un piccolo ma importante referendum per il quale i Radicali stanno raccogliendo le firme per organizzare una consultazione per fare una cosa semplice e lineare: mettere a gara i servizi di trasporto pubblico locale di Roma. Il referendum riguarda Roma, certo. Riguarda la sua martoriata Azienda di trasporti pubblici locali (Atac) che Virginia Raggi avrebbe potuto privatizzare (le Ferrovie dello Stato erano pronte a comprarsi Atac, il sindaco di Roma non ha neppure aperto il dossier).

 

 

Riguarda un’azienda di fatto fallita che non offre servizi efficienti, che perde centinaia di milioni di euro l’anno, che ha accumulato un deficit di 1,1 miliardi di euro, che totalizza più della metà delle perdite del settore del trasporto pubblico a livello nazionale e che vive in un conflitto di interessi vero in cui vi è un controllore (Roma Capitale, ovvero il comune) che controllando il suo controllato (Atac, società di proprietà esclusiva di Roma Capitale) non ha alcun interesse a combattere gli sprechi e a rendere più efficiente un’azienda diventata il più grande ammortizzatore sociale delle clientele della politica romana. Riguarda Roma, il referendum, ma le ragioni per cui vale la pena però parlare di questa consultazione – siamo pronti a fare i banchetti! – non sono legate al semplice perimetro della Capitale. Ma sono legate a un principio cruciale che sta diventando il vero spartiacque della politica contemporanea e che i Radicali hanno sintetizzato bene nelle motivazioni con le quali invitano a sostenere il referendum: “Aprire alla concorrenza non significa dover necessariamente scegliere un operatore privato, ma piuttosto introdurre strumenti oggettivi e trasparenti per selezionare quella società pubblica o privata, maggiormente in grado di stimolare il perseguimento della riduzione dei costi operativi e l’offerta di un servizio di qualità”. Un principio che se fosse compreso fino in fondo dalla classe politica porterebbe a sviluppare un ragionamento importante, in base al quale dovrebbe essere evidente che il vero nemico del riformismo, oggi, è l’immobilismo, non il populismo. Il silenzio incredibile che, salvo qualche articolo isolato su qualche giornale, si avverte attorno al referendum è purtroppo lo specchio perfetto e il riflesso coerente di un’Italia in cui tutti a parole dicono di voler più concorrenza – e in cui tutti a chiacchiere dicono di essere contro le minoranze che tengono bloccata l’Italia – ma in cui alla prova dei fatti in molti mostrano di essere complici di un sistema in cui le rendite di posizione non vengono combattute ma vengono garantite, tutelate e persino alimentate.

 

L’Atac, oggi, è un simbolo negativo di Roma. Roma, oggi, è un simbolo negativo per l’Italia. Un referendum per chiedere più concorrenza, per stimolare le imprese, pubbliche o private, a comportarsi in modo più virtuoso, non sarebbe solo un modo per sfiduciare un sindaco che, come i suoi predecessori, ha scelto di non fare nulla per trasformare la Capitale nel simbolo dell’efficienza e non dell’inefficienza. Sarebbe un modo per mettere in moto un treno politico e culturale che anche per via referendaria potrebbe cominciare a girare l’Italia chiedendo semplicemente di avere servizi migliori, più efficienti e a costi più bassi e ricordando che i populismi non si battono con altre dosi di populismo ma con dosi massicce di politiche anti immobilismo. Bloccare la concorrenza, oggi, significa bloccare l’Italia. Non promuovere la concorrenza, come ha ricordato in un certo modo ieri la Banca centrale europea nel suo Bollettino mensile,  significa essere complici di un orrendo partito unico che per difendere piccole rendite di posizione ha scelto di negare al nostro paese la possibilità di crescere come potrebbe e di correre come dovrebbe. Non c’è una sola ragione al mondo per non firmare il referendum radicale. Non c’è una sola ragione al mondo per cui un Matteo Renzi o un Silvio Berlusconi non debbano precipitarsi a un banchetto per chiedere più concorrenza nella Capitale d’Italia. Noi firmiamo, e voi?

Di più su questi argomenti:
  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.