L'Italia cresce grazie ai privati, il freno sono Pa e sindacati

Renzo Rosati

Leggere bene i dati dell’Istat prima di fare paragoni con Atene e lodare la concertazione (vero Sole 24 Ore?)

Roma. L’aumento del Pil confermato martedì dall’Istat, dopo le anticipazioni della Commissione europea – più 0,2 nel quarto trimestre 2016, più 0,9 nell’anno, più 1,1 rispetto allo stesso periodo del 2015 – non è ovviamente tale da brindare a champagne, ma neppure da abbandonarsi a lamentazioni nazionali. Di fatto se si guarda ai dati tendenziali, al paragone anno su anno, l’Italia cresce quanto la Francia. Andrebbe dunque meglio interpretata, se non aggiornata, la mappa nelle varie sfumature di azzurro esibita a Bruxelles, che per crescita vede il paese in coda all’Europa e ha scatenato il sensazionalismo mediatico: “Facciamo peggio della Grecia (più 2,7)! La Romania (più 4,4) ci fa mangiare la polvere!”. Innanzi tutto: davvero cambieremmo la nostra economia (e società) con quelle greche, bulgare, romene? E lo stesso dovrebbero fare Germania, Gran Bretagna, Francia, il cui prodotto nazionale è cresciuto di un terzo rispetto a Sofia?

 

La realtà è molto diversa, la sua analisi non richiede un grande sforzo, se solo ci si provasse, e ha a che fare con l’Europa a più velocità immaginata da Angela Merkel, altro discorso che qui è stato liquidato come la solita tentazione da Reich. Proprio da quella cartina si vede che l’Europa merkeliana è già un dato di fatto, non il desiderio della Cancelliera di “spedire in serie B” qualcuno. Lasciando perdere la Grecia e i suoi guai, l’est continua a crescere a livelli sostenuti – Croazia, Slovenia, Ungheria e Polonia sono tutte oltre il 3 per cento – beneficiando di società più povere ma molto più flessibili dell’Europa centrale, con contratti di lavoro quasi da paesi cacciavite, spesa pubblica più bassa (e prestazioni sociali ridotte), minore indebitamento dello stato e soprattutto tassazioni ridotte. Tutto il contrario del nucleo “core” dell’Europa centrale: molto stato sociale, anche molto politically correct, alte tasse e debiti. Qui la differenza a favore della Germania la fanno il rigore sui conti e la produttività, dell’industria privata e del settore pubblico.

 

Poi ci sono Irlanda e Spagna (più 3,4 e 2,3 di crescita) la cui rapidità nel tirarsi fuori dal soccorso europeo è dovuta ai contratti flessibili anche privati, alla tenuta del settore finanziario, alle tasse più basse, ai servizi che funzionano e attraggono capitali. Questa lettura dei dati, già presente nell’ultimo outlook del Fondo monetario internazionale, porta a una conclusione: per crescere quanto l’Europa centrale l’Italia ha bisogno di produttività e fiducia nel settore privato, e di cambiare radicalmente usi e costumi nella Pubblica Amministrazione. I privati si stanno rimboccando le maniche: a dicembre la produzione industriale è cresciuta del 6,6 su base annua, miglior risultato dal 2010. Come al solito la parte del leone l’hanno fatta le auto (leggi Sergio Marchionne): più 9,2 a dicembre, più 20,6 nel mese. Ma altri settori si rimettono in moto, perfino la siderurgia, e su questo incidono le aspettative per i contratti di produttività aziendale firmati nei mesi scorsi, che Fca applica da anni. E ne è causa e conseguenza anche il Jobs Act. Un bilancio esauriente pubblicato dal Corriere della Sera è stato elaborato da Marco Centra e Valentina Gualtieri (il primo docente di Statistica alla Sapienza e responsabile del servizio statistico dell’Isfol, la seconda ricercatrice sempre all’Isfol) su dati Sisco, il sistema informativo unico dei contratti del ministero del Lavoro.

 

Solo nel 2015, in otto mesi, il Jobs Act ha prodotto 714 mila nuovi contratti a tempo indeterminato, al netto delle cessazioni; l’occupazione temporanea è scesa all’11 per cento sul totale degli occupati, tre punti meglio della Francia e quasi al livello della Germania, con il 18 per cento di trasformazione di lavori temporanei in stabili. “Tendenze, in base a dati provvisori, proseguite nel 2016”. Eppure che fa la Cgil? Con un dossier della Fondazione Di Vittorio presentato per lanciare la campagna referendaria anti voucher denuncia la “svalorizzazione del lavoro, la sua precarizzazione, la continua crescita delle diseguaglianze, il freno allo sviluppo, la crescente sfiducia”. Un bello slogan, peccato che sbatta con la realtà. Mentre fa venire in mente una domanda: come mai la confederazione di Susanna Camusso è stata l’unica a contrastare gli accordi aziendali di Fca, che hanno rilanciato stabilimenti irrecuperabili come Pomigliano, fruttato bonus annui da 1.400-1.900 euro, e quindi ridotto le diseguaglianze, contribuito al Pil, quasi eliminata la cassa integrazione la quale, dice il rapporto sul Jobs Act “è stata ricondotta alla funzione di risposta alle crisi temporanee”? Ma non solo Cgil.

 

Che cosa scrive il Sole 24 Ore, quotidiano della Confindustria? Da giorni dedica grande spazio alla riforma del pubblico impiego, i cui decreti attuativi sono oggetto di confronto fra governo e sindacati in vista della operatività. Si va dalle assenze furbastre punibili (si spera) con il licenziamento, alla produttività e ai contratti che dovrebbero evitare gli aumenti a pioggia. Il 24 Ore celebra però “il ritorno alla centralità dei contratti nazionali”, abbandonata (ingiustamente secondo il giornale confindustriale) nel 2009, in èra Brunetta e con gli accordi senza la Cgil. Ora “la parola d’ordine è la restituzione della materia ai contratti nazionali ridando alle relazioni industriali i compiti che la riforma del 2009 aveva tolto”. Una beatificazione senza distinguo della concertazione che in questi decenni ha prodotto nell’amministrazione pubblica risultati tipo: zero contributo al Pil (Istat, terzo trimestre 2016), inefficienze, sprechi e abusi pari a 16 miliardi l’anno (Cgia di Mestre su dati del Fmi), illicenziabilità dei lavativi e retribuzioni a pioggia, variabile indipendente dal merito e dai servizi forniti. Insomma, una bella mano alle diseguaglianze e alla sfiducia, direbbe la Cgil. Solo che sfugge al quotidiano dell’imprenditoria privata; che però ha in prima pagina “l’Italia che arranca”: e non si chiede il perché?