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Lavoro libero

Alberto Brambilla

La contrattazione nazionale e il potere sindacale hanno accresciuto il divario salariale tra i lavoratori italiani e castrato le imprese. Due report dell’Iza

Roma. Con il contratto firmato sabato scorso da imprenditori e sindacati metalmeccanici il sistema regolativo dei rapporti di lavoro d’ora in poi potrà forse adeguarsi alla velocità con cui evolve il mercato del lavoro stesso, come suggeriva Marco Biagi quattordici anni fa prima che i nuovi brigatisti rossi lo assassinassero. L’intesa tra Confindustria-Federmeccanica e i tre sindacati di categoria Fim-Cisl, Uilm-Uil e Fiom-Cgil conclude una stagione decennale di prevalenza di posizioni ideologiche sulle ragioni del progresso economico per cui i rinnovi contrattuali erano diventati il pretesto per rivendicazioni politiche varie.

 

  

Nel settore più rilevante per l’industria manifatturiera italiana, il rinnovato contratto nazionale – che dovrà essere votato da 1,6 milioni di addetti entro fine anno – non determinerà la dinamica salariale in modo rigido, come in passato, ma farà da cornice di riferimento per i rapporti economici tra datore di lavoro e dipendente. Certifica poi la libertà per le imprese di modulare le retribuzioni extra-salario, la formazione, di organizzare il lavoro attraverso la revisione di vecchi modelli d’inquadramento e istituendo un comitato di lavoratori che la proprietà è obbligata a convocare per fare scelte strategiche. Molti osservatori hanno visto nel nuovo contratto una svolta positiva per l’economia. D’altronde la contrattazione collettiva, secondo due recenti studi del think tank Iza, avrebbe contribuito ad aumentare le diseguaglianze salariali e la bassa diffusione di contratti aziendali avrebbe frenato l’avanzamento tecnologico.

 

Queste ultime considerazioni derivano da due report dell’Institut zur Zukunft der Arbeit (Iza), importante istituto di ricerca sul lavoro e sulla società di Bonn in Germania. Nel primo studio pubblicato a ottobre, “Collective Bargaining and the Evolution of Wage Inequality in Italy”, i ricercatori (Devicienti, Fanfani, Madia) hanno analizzato la popolazione di lavoratori e di imprese del Veneto dal 1982 al 2001 provando che un meccanismo di fissazione dei salari rigidamente regolato a livello nazionale dalle centrali sindacali è stato un canale rilevante attraverso il quale le forze di mercato hanno contribuito ad aumentare le diseguaglianze salariali tra lavoratori e ha costretto le imprese a non potere agire sulla leva delle retribuzioni secondo esigenze contingenti. La diseguaglianza dei salari in quegli anni, secondo l’Iza, è cresciuta sia in Italia sia in Germania in modo simile.  

  

Tuttavia il sistema italiano non è passato attraverso il rinnovamento vissuto nei primi anni Novanta nella Germania post unitaria, quando le imprese ebbero la possibilità di uscire dalla contrattazione collettiva (clausola di opt-out) e così moderare i salari, accettando un ribasso anche momentaneo a favore di un progetto di sviluppo futuro ed evitando di ricorrere ad ammortizzatori sociali. In Italia invece il contratto collettivo blindato, vincolato ai minimi, ha impedito politiche flessibili costringendo le imprese a evitare aggiustamenti salariali per riuscire a contrastare un contesto economico difficile. Ma eventualmente, si deduce, a fare ricorso ad ammortizzatori sociali o addirittura licenziamenti. In un altro rapporto del mese scorso intitolato “Technical Efficiency, Unions and Decentralized Labor Contracts: New Empirical Evidence”, gli autori dell’Iza – gli italiani Devicienti, Manello, Vannoni – hanno analizzato oltre 3 mila imprese in anni recenti; conclusione: la mera presenza del sindacato all’interno dell’azienda riduce l’efficienza dell’impresa, ma quando tale presenza s’accompagna alla sottoscrizione formale di un accordo di secondo livello (contrattazione aziendale) gli effetti sull’efficienza sono positivi.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.