“Keyla la Rossa” di Isaac Singer è pubblicato da Adelphi in anteprima mondiale (sopra, Marc Chagall, “La vie”, 1964)

Sesso, Singer e nostalgia

Annalena Benini

Isaac, lo scrittore “troppo ebreo” che ha raccontato, e nascosto, lo scandalo e l’incanto del ghetto

Aventinove anni, Keyla la Rossa era già passata per tre bordelli. Il suo primo protettore era stato Itche il Guercio. Ma Yarme, dopo un solo giorno e una notte con lei, l’aveva portata da un rabbino del quartiere, uno di quelli che non fanno domande, e l’aveva sposata. A Varsavia, nel ghetto, in quella via Krochmalna poverissima, incantata e folle, covo di ladri puttane mendicanti, che è la strada in cui Isaac Bashevis Singer visse da quando aveva tre anni, con la madre, i fratelli e il padre rabbino. Il padre ogni sera raccontava storie, teneva i figli immersi nelle storie. Erano i primi anni del Novecento, gli anni dell’infanzia, e tutta la vita letteraria di Isaac Singer è lì dentro, la nostalgia e il pensiero rivolto al mondo che ha abbandonato fuggendo a New York nel 1935, prima che Varsavia venisse distrutta. Singer, che il figlio ha descritto come un uomo divorato dall’egoismo e dall’ambizione, scelse di vivere, cambiando completamente il corso di un’esistenza che però non ha mai tolto lo sguardo da quelle strade, da quella gente, e dal rumore di povertà, allegria e desiderio ossessivo.

 

Keyla la Rossa è un inedito, pubblicato adesso da Adelphi in anteprima mondiale: l’ha tradotto in italiano Marina Morpurgo, che ha usato il dattiloscritto inglese e il testo originale in yiddish. Questo romanzo scandaloso, pieno di sentimento, sesso e dannazione, era uscito a puntate, ogni due settimane, tra il 9 dicembre 1976 e il 7 ottobre 1977 su Forverts, il quotidiano yiddish di New York. Singer era diventato un vecchio signore ebreo che dava da mangiare ai piccioni al parco e andava ogni giorno a pranzo da Barney Greengrass, stava per vincere il premio Nobel per la Letteratura (1978), ma soprattutto era un uomo ossessionato dalla sua lingua, dai suoi morti, dall’infanzia e dal suo mondo interiore di ebreo della diaspora. Non voleva però che i non ebrei leggessero della licenziosità nel ghetto ebraico, delle puttane e degli omosessuali (Max lo Storpio finge di amare le donne e violenta Keyra, strappandole le mutande, ma in realtà desidera Yarme, perché preferisce gli uomini), di qualcosa di peccaminoso che però ha più a che fare con i sentimenti che con il sesso, con un’idea della vita che è continuamente inseguita dalla morte e dalla dannazione, sempre sul limitare di un abisso, un attimo prima di cadere, un attimo prima di salvarsi: ma non ci si salva mai, si può soltanto ridere della propria caduta.

 

Un inedito: la storia di Keyla la Rossa, che a ventinove anni era già passata per tre bordelli, e di Yarme, che l'ha subito sposata

Isaac Singer ha avuto tre fratelli, di cui due scrittori, Esther e Israel. Israel era il fratello maggiore, che l’ha sempre incoraggiato e preceduto a New York, e ha scritto tra gli altri La famiglia Karnowski, pubblicato sempre da Adelphi grazie a Elisabetta Zevi: è morto a New York a soli cinquant’anni, quindi prima che Isaac diventasse famoso con Gimpel l’idiota. Isaac gli ha dedicato La famiglia Moskat: a Israel, padre spirituale e maestro di vita. Esther è stata piuttosto snobbata dai fratelli come scrittrice, è morta a Londra dieci anni dopo Israel. E l’altro fratello, Moshe, divenne rabbino e venne ammazzato dai nazisti, non lasciò la Polonia: è uno dei morti di Isaac, fa parte della sua persecuzione interiore. Isaac è rimasto quindi presto da solo con i ricordi, ha raggiunto il successo quando la sua famiglia esisteva ancora soltanto grazie alle storie che aveva raccontato nei libri e a voce. Il figlio di Israel negli anni Settanta ha tradotto il manoscritto yiddish di Keyla la Rossa in inglese, come sempre succedeva perché Isaac sosteneva che “un vero scrittore non scrive in una lingua appresa da adulto, ma nella lingua che conosce sin dall’infanzia”. Isaac Singer non ha mai smesso di sentirsi là. Anche per questo non amava Saul Bellow, troppo americano (e Saul Bellow considerava Singer “troppo ebreo”). Isaac per tutta la vita si è opposto alla pubblicazione di Keyla la Rossa (il titolo originale era Yarme e Keyla). Voleva tenere questo romanzo (sull’amore, la morte e l’impossibilità di una redenzione) per sé e per il suo vero unico mondo, quello dei dannati del ghetto. Solo nel 2011 il libro è uscito in ebraico, e adesso in italiano, e chissà quanti altri inediti sono conservati nella lingua dell’infanzia: storie scabrose, da tenere nascoste a chi forse non avrebbe potuto, allora, afferrare appieno il senso di un mondo perduto, dominato da una sensualità disperata, ubriaca e rissosa, che sembra sempre pronta al riscatto, a una nuova vita, ma di nuovo si scivola in un letto sporco, o per terra, perché il desiderio è troppo forte, perché il destino è già pronto. Keyla la Rossa ha ventinove anni ed è già passata attraverso tre bordelli ma non ha perso una specie di incredibile purezza. Ha imboccato molto presto la via del peccato. “A nove anni, al mercato, aveva visto uno stallone montare una cavalla e ne era stata eccitata, aveva provato un desiderio che non si era più placato”. Keyla è continuamente scossa dal desiderio e non sa nemmeno leggere, ma è religiosa, crede in dio, ai demoni, agli spiriti maligni, al malocchio. Vuole salvarsi ma ogni volta una voce dentro le dice: “Tanto sei perduta”. E’ bellissima, magnetica, ingenua, nessun uomo può resisterle, e a nessun uomo lei resiste. Vorrebbe essere una brava moglie, che cucina e pulisce la casa e rispetta le feste e non si concede nel giorno del Kippur, vorrebbe una vita tranquilla, perfino un figlio biondo e con gli occhi azzurri, implora gli uomini di salvarla e di non farla tornare nel fango, ma i bassifondi arrivano sempre a cercarla e lei non sa opporsi, si sente abbandonata da tutti, si sente fango lei stessa: agli uomini porta la sua sensualità e le storie del bordello. Keyla ama fortissimo, ed è amata fortissimo da Yarme, che nonostante il suo desiderio di ricchezza e libertà non riesce a vivere senza di lei. Senza quell’amore fatto di corpo e di chiacchiere nel letto fino all’alba. “Marito e moglie amavano conversare, non solo andare a letto insieme. Keyla aveva milioni di storie da raccontare, e per ognuna di quelle storie, Yarme ne aveva dieci”. Avevano un accordo scandaloso, dentro questo mondo fatato sempre sull’orlo del crollo. Se una donna piaceva a Yarme, o un uomo a Keyla, potevano assecondare i loro capricci, ma a un’unica condizione: tra di loro non doveva esserci nessun segreto, dovevano raccontarsi tutto nei particolari, e così facevano. Keyla non aveva alcuna intenzione di cercare altri uomini, ma era come un magnete e li attirava con la sua sola esistenza. Ecco dove sta la scabrosità che il premio Nobel che dava il cibo ai piccioni, convinto fossero la reincarnazione ornitologica dei suoi morti assassinati, non voleva mostrare al mondo esterno: una libertà del cuore che andava oltre la miseria delle giornate e oltre le regole e soprattutto l’idea che “nessun socialismo, nessun anarchismo, nessun ismo sarebbe mai riuscito a sanare la tragedia umana”. Non c’è moralismo, ma ironia. La tragedia umana, vestita degli abiti colorati delle prostitute del ghetto e dei ruffiani con il bastone, non è meno tragedia ma ha una possibilità di distacco attraverso la potenza delle storie, attraverso una passione per la vita che assomiglia a quella di Dickens e Dostoevskij, in cui è impossibile smettere di raccontare, inventare, ricordare.

 

Mai pubblicato in vita: voleva tenere questo romanzo per sé e per il suo vero unico mondo, quello dei dannati del ghetto

Isaac Singer ha scritto romanzi, racconti, storie per bambini, memorie, tutto sempre rivolto verso il mondo che ha perduto, da cui è fuggito per salvarsi. “Troppo ebreo”, ma ebreo fuggito lasciando moglie e figlio a Varsavia. “Troppo ebreo”, non necessariamente amato dagli altri scrittori ebrei. Ho letto una bellissima prefazione di Alessandro Piperno al romanzo di Singer Il mago di Lublino, in cui Piperno spiega anche il fastidio di Saul Bellow e di Philip Roth per il folklore di Singer. (Il mago di Lublino è del 1960, scritto in yiddish e poi tradotto in inglese, è la storia di Yasha, un prestigiatore, illusionista, ipnotizzatore, scassinatore e funambolo ebreo originario del ghetto di Lublino, in Polonia, pronto per lussuria ad abbandonare la moglie Ester per andare in Italia e dedicarsi alla vita criminale in compagnia di Emilia, una ragazza cattolica che lo fa impazzire, ma lo fa impazzire anche la figlia quattordicenne di lei: Yasha si pente e torna al villaggio dove si fa chiudere in casa a scontare le proprie colpe, e le donne che fino ad allora aveva sempre amato “si introducevano di nascosto nell’aia, battevano alle imposte, tentavano addirittura di demolirle con la forza. Gemevano e gridavano, e quando venivano respinte e deluse, lo maledicevano”). Fu proprio Saul Bellow a tradurre in inglese, negli anni Cinquanta, il primo racconto di Singer, Gimpel l’idiota. E’ impossibile dimenticare quell’incipit: “Sono Gimpel l’idiota. Non che io mi senta un idiota. Anzi. Ma è così che mi chiama la gente”. Nello stesso periodo, mentre Saul Bellow traduceva Gimpel, pubblicava Le avventure di Augie March, che comincia così: “Sono americano. Nato a Chicago”. Sono due assunzioni di responsabilità, ugualmente forti e totalmente opposte. Essere americani oppure essere Gimpel l’idiota. Secondo Piperno è questo il motivo dell’antipatia di Bellow per un grande scrittore, Singer, che non faceva che ricordargli i luoghi remoti da cui proveniva la maggior parte degli ebrei americani, mentre per Bellow (e per Philip Roth) era ed è fondamentale essere scrittori americani, come se solo i veri americani fossero autorizzati a scrivere. Mentre Singer rimanda continuamente a un mondo incantato, terribile, diverso, pieno di segni premonitori, sensuale non in un modo metropolitano ma mistico, anche se c’è qualcosa di estremamente moderno nel rappresentare gli ebrei sempre nella peggiore luce possibile (fino ad autofrenarsi e cercare la redenzione evitando di pubblicare in inglese un romanzo già pronto). Singer, che non avrebbe mai potuto vivere in Israele (come sua moglie e suo figlio, invece, che riuscirono a fuggire da Varsavia), e che a New York, a trentadue anni, trovò la libertà, poi il successo, molti amori, moltissime tentazioni e infine il premio Nobel, continuava però ostinatamente a raccontare il suo tormento, il suo debito, e lo faceva nella sua lingua. Senza piangere, ma con un buonumore nostalgico. Era diventato vegetariano, e al pranzo del Nobel chiese e ottenne un menu senza carne. Saul Bellow commentò perfidamente: “Avrà anche smesso di mangiare carne, ma non ha certo smesso di bere sangue”. Bellow considerava Singer “una personalità lambiccata, un opportunista, un carrierista”, e Philip Roth, che nel 1976 andò a casa di Singer per intervistarlo, nell’Upper West Side, mancò totalmente di rispetto alla sua età e al suo prestigio chiedendogli non della sua opera ma di quella di un altro autore polacco ed ebreo: Bruno Schultz. Ma Singer amava moltissimo Schultz e il suo lottare per “la causa persa della poesia”, e parlando di lui parlò di sé, del bisogno di nostalgia, luce, colore, speranza. Anche se tutti tradiscono tutti, in questo mondo, e la morte sta sempre per arrivare. Spesso è invocata. Ma a chi, come Keyla la Rossa, grida: voglio morire!, c’è sempre qualcuno che risponde: “Prima di morire, bisogna vivere”.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.