Melania Mazzucco (foto LaPresse)

Quando scrivo divento l'altro e dico ciò che non potrebbe dire

Annalena Benini

Melania Mazzucco racconta la verità più vera del vero, l'immersione nei personaggi, la letteratura che muove insieme i vivi e i morti e il filo che tiene insieme tutto, dal trisavolo rabdomante a Brigitte, venuta dal Congo

Melania Mazzucco arriva e porta con sé, dentro di sé, tutte le persone di cui ha scritto e di cui scriverà. Arriva a casa mia ed è preoccupata per il figlio di Brigitte, la profuga del Congo che ha raccontato nel suo ultimo magnifico romanzo, Io sono con te, e che adesso fa parte della sua famiglia, è legata a lei e alla sua vita da un filo che tiene tutto insieme: la letteratura, la morte, le ferite, i posti del mondo in cui le persone si sfiorano o si mancano, e il destino di una scrittrice che non voleva scrivere, “avevo paura di essere troppo fragile, soffrivo per il dolore di mio padre scrittore, ma alla fine è stato lui, in un modo un po’ magico, a dirmi: scrivi”.

 

Brigitte era viva
e insieme morta, incontrarla mi ha aiutato a capire il momento
in cui la mia vita
si è spezza in due

 

Melania Mazzucco ha vinto il Premio Strega nel 2003 con Vita, storia piena di storie, in cui la vita di suo nonno, emigrante negli Stati Uniti all’inizio del Novecento, abbraccia quella del mondo, ed è tutto vero, vero della verità che è stata compresa dentro i pensieri e dentro i racconti, dentro l’invenzione e dentro un lavoro di filologa, di studiosa, che Melania applica a tutto ciò che fa: “Mi immergo nelle vite che non sono la mia e le prendo su di me, ma ci sono anche io dentro i miei libri, ci sono per forza: non si può raccogliere la vita degli altri senza mettersi in gioco, lasciandosi fuori, al sicuro. Io non sono mai nella comfort zone, e per questo non è nemmeno facile rispondere alla domanda su cosa è vero e cosa non lo è, perché la vita viene rielaborata dalla memoria, che è creativa, distorce, crea, ma so che spesso la memoria del racconto è più vera della verità”. Le chiedo di raccontarmi qualcosa che sia più vero del vero, per cominciare. “Nella storia di mio nonno, arrivato dodicenne, ma forse aveva qualche anno in più, negli Stati Uniti, il racconto di mio padre e di mio zio è stato lo stesso: mio nonno si è spogliato nudo davanti alla commissione di Ellis Island per tirare fuori i suoi dieci dollari. Ma quando ho studiato la migrazione italiana, per scrivere Vita e per dialogare con mio padre, morto da molti anni, ho scoperto che era praticamente impossibile che mio nonno si fosse denudato: probabilmente aveva solo scucito la tasca per estrarre tutto quello che aveva, i dieci dollari. Però se lui ha raccontato di essersi spogliato davanti a tutti è perché ha provato un sentimento di umiliazione, di nudità, di nuova nascita e di inermità: un bambino povero che arriva in una nuova terra. Questo per me è vero più del gesto vero che lui ha compiuto. E vale anche per quello che racconto di me, e per le scelte che faccio quando capisco che ho incontrato il libro che scriverò. Incontrare Brigitte, che era viva e insieme morta perché aveva attraversato la morte, mi ha aiutato a capire molto di me, a raccontare il momento in cui anche io e Luigi, mio marito, il mio compagno, siamo morti. E’ per questo che sento Brigitte vicinissima, disastrata, ferita, vulnerabile come me, come noi, ed è per questo che la letteratura, che è la quintessenza della vita, ha così tanto a che fare con la morte”.

 

Credevo di essere fragile, sentivo il dolore di mio padre scrittore, ma alla fine lui mi ha mandato a dire: scrivi

Melania Mazzucco è generosa di sé e del suo lavoro appassionato ma al tempo stesso riservata, non vuole dirmi di questa morte perché la turba, ma in Io sono con te è stata più impudica (“nella scrittura metto la massima impudicizia, ma con le persone ci sono delicatezze da rispettare”), e ha scritto, raccontando di Brigitte, della febbre altissima che ha preso suo marito Luigi Guarnieri in una yurta sul lago di Song-Kol, ha raccontato la vita che si spezza in due. “Trentanove e otto di temperatura, quaranta, quarantuno, quarantuno e otto. Quando si assopisce – ma io non sento il suo respiro e credo che sia morto – esco all’aperto”. Melania Mazzucco ha creduto di avere perso tutto e sotto quel cielo di stelle a quattromila metri di altitudine si è sentita sconfinatamente sola: è stata la sua, la loro morte, due anni fa, da lì ha ricominciato a vivere piano piano e di quel passaggio mi sembra porti i segni nella magrezza del corpo, e nel legame simbiotico con la rinascita accidentata di Brigitte: l’ha raccontata mentre accadeva, ha scelto lei proprio perché era la più difficile, e continua a viverla intensamente e a farsene carico adesso, come se si trattasse della sua stessa rinascita. Sembra un metodo, questo, non solo di scrittura ma anche di vita, come se scrivere coincidesse con vivere, o almeno spiegasse la vita e aiutasse anche a tenere insieme i vivi e i morti. “La vita è una spirale e spesso uno scrittore arriva dove lo porta qualcosa che lui ancora non sa. Per questo quando parlo con gli altri scrittori per me è sempre importante capire il motivo per cui scrivono quella cosa, perché la letteratura non è separata dalla nostra vita ma la nutre: la letteratura nasce e sgorga da ciò che ti interessa in quel momento, da ciò che ti ferisce, da ciò che non riesci ad affrontare, tutto si va a incastrare e in qualche modo anticipa la vita: a volte molte cose che scrivi arrivano dieci anni prima che ti capitino, però tu sai che ci stavi già intorno. E’ anche una cosa tremenda: ho avuto paura di storie che ho scritto dieci anni prima, e ora non riesco neanche a dirle. Ho paura di scrivere, a volte, ho in testa dei romanzi che vorrei scrivere e che ho timore di scrivere perché poi le cose accadono. La letteratura si invera e questo è molto inquietante”.

 

 

Si era assopito
con la febbre a 41.8, credevo che fosse morto, sono uscita sotto un cielo di stelle
e ho creduto
di aver perso tutto

C’è qualcosa di divinatorio nel modo totalizzante di vivere la letteratura di Melania Mazzucco, e per raccontarlo bisogna partire dall’inizio, da quando era una bambina, figlia minore di un padre scrittore di teatro che faceva cabaret politico e satira negli anni Settanta a Roma, Roberto Mazzucco. “Da che ho memoria, avevo cinque o sei anni, mio padre frequentava adulti per me già molto più interessanti dei bambini. Dario Fo, Silverio Blasi, Franco Basaglia, Goliarda Sapienza, Miranda Martino. Mi piaceva stare con loro a sentire le discussioni. Mio padre era l’unico, fra questi artisti, che facesse una vita normale, quindi casa nostra era sempre aperta e mia madre cucinava per tutti: per la compagnia teatrale, per gli amici, per i rifugiati politici. Mio padre non faceva parte di nessun partito ma si parlava tantissimo di politica, erano gli anni del terrorismo. Mia madre era molto accogliente e faceva le cacce al tesoro, nella nostra casa modesta alla Balduina, per tutti i bambini della scuola. Ho vissuto un’infanzia aperta, non posso dire felice perché nessuna infanzia lo è, ma mi sentivo già ricca: volevo essere come queste persone che giravano per casa, le attrici, le registe, le scrittrici e quando vedevo mio padre che batteva sui tasti della macchina da scrivere dietro la porta a vetri, sapevo che non bisognava assolutamente disturbarlo e però quella era la musica della mia vita, il rumore della mia vita, il ticchettio sul foglio, e il mistero che portava con sé. Appena lui non c’era mettevo il foglio bianco nel rullo e provavo a scrivere”. Ma crescendo ti sei allontanata da lì. “Nell’adolescenza mi sono resa conto del resto, di cosa vuol dire la vita di uno scrittore, quale fragilità, dolore, anche devastazione porta con sé: sei esposto a ogni giudizio, vieni fatto coincidere con quello che scrivi e vieni quindi giudicato come persona e come scrittore, in una lunga vita tutto questo ti destabilizza enormemente. A me è successo e anche a mio padre. Le cose cambiano, e ho visto mio padre angosciato e preoccupato, e siccome pensavo di essere molto fragile ero certa che non sarei riuscita a reggere quell’angoscia. Ho vissuto tutta la vita convinta di essere fragile, forse non essendolo. Quindi avevo rinunciato all’idea di scrivere, mi sono cercata altrove ma senza talento, ho studiato Lettere e ho sempre viaggiato molto, anche da sola. Ero un po’ in conflitto con la mia famiglia e le mie libertà me le sono prese: ho salutato mia madre a Torino, partendo per la Turchia, e ho risentito mio padre una cinquantina di giorni dopo, tornata in Italia. Avevo bisogno di altrove, sognavo l’avventura di mio nonno minatore, che a dodici anni era stato messo su una nave per l’America. Quando sei giovane non hai paura di morire, solo i vecchi hanno paura di morire”. Questi viaggi hanno segnato una vita di scrittrice, nei viaggi ha quasi sempre incontrato i libri, ed è stato in un viaggio che Melania Mazzucco ha reincontrato il desiderio di scrivere. “Avevo vent’anni, ero in Germania da sola e avevo finito i soldi, ad Amburgo ho telefonato a una quasi sconosciuta, Hennie, una ragazza che mi ha ospitato qualche giorno a casa sua: si stava preparando per fare l’esame al centro sperimentale a Roma, per la borsa di studio. Mi ha acceso qualcosa dentro, e a Roma abbiamo fatto l’esame insieme, lei per regia io per sceneggiatura. Sono stata aiutata dalla vita a tornare dove non osavo più desiderare, mi sono fatta portare fino a lì dai desideri di Hennie”.

 

Con Luigi ho condiviso tutto: abbiamo costruito insieme, demolito insieme, siamo pure morti insieme. Conosco
i suoi sogni e lui i miei

Questo è il modo in cui Melania Mazzucco vive e scrive: attraversando le persone, portandole con sé. Ma allora non era ancora una scrittrice, o almeno: non lo sapeva. “Al centro sperimentale sono stati anni molto belli e in quel tempo ho scritto un racconto e l’ho fatto leggere a mio padre, forse per riavvicinarmi a lui, che era in conflitto con me e con se stesso: avrebbe voluto che io avessi un lavoro vero, pur avendo sofferto di avere fatto il ferroviere per mantenere la famiglia, scrivendo di notte, quindi soffriva anche nel pensare di proporre a me ciò di cui si era liberato con tanta fatica. Lesse il racconto e disse soltanto: interessante, ma mi fece leggere cose sue e per me quello fu un momento molto importante, di vita adulta, di riconoscimento, e un pomeriggio mi confidò che aveva scritto un romanzo e aveva deciso di cambiare la sua vita, di dire basta al teatro. E’ stata la nostra ultima conversazione perché la sera stessa lui è morto, a cena, all’improvviso. Di mio padre mi è rimasta la pantofola che è scivolata giù quando l’hanno messo sulla barella”. Per questo dici che vi siete mancati, così come Annemarie Schwarzenbach, la scrittrice che hai raccontato in Lei così amata, ha sempre mancato sua madre, per questo Melania Mazzucco rimpiange di essere stata sempre e soltanto una figlia. “Ma con mio padre non è finita qui. Tre anni dopo, mentre mi arrabattavo, scrivendo un sacco di soggetti per sceneggiature, ma sentendomi al sicuro perché non scrivevo mai nulla di personale, ho lavorato con Giovanni Veronesi, il regista, giovane e all’inizio della sua carriera: lui mi dice che ho uno strano nome, Melania, un nome raro, e che suo fratello Sandro, lo scrittore, sta lavorando a Nuovi Argomenti, la rivista fondata da Alberto Moravia, e ha in mano il racconto di una certa Melania, senza cognome, e che la stanno cercando per pubblicare il racconto. Mi chiede se sono io, mi dice il titolo del racconto, e infatti sono io, che però non ho mai mandato il racconto a Nuovi Argomenti: non mi sarebbe mai venuto in mente. Così ho scoperto, parlando con Sandro Veronesi, che mio padre aveva dato il mio racconto a Enzo Siciliano, senza dire di chi fosse, e Siciliano l’aveva dato a Nuovi Argomenti, dove nessuno sapeva che quella Melania era la figlia di Roberto Mazzucco. Si è riaperta una porta o mi è arrivato un messaggio. A quel messaggio io ho risposto: certo, sì”. Da quel momento, erano i primi anni Novanta, è iniziata la storia di Melania Mazzucco scrittrice: “Mi sono rimessa sul mio primo romanzo, Il bacio della medusa, ho cercato con ostinazione di farlo pubblicare, ho incassato molti rifiuti, ho aspettato ma non ho più smesso di rispondere a quel messaggio”.

 

 

Ho paura di scrivere,
a volte, perché so che poi le cose accadono:
la letteratura si invera
e questo è molto inquietante  

Da allora Melania Mazzucco ha inseguito le sue ossessioni, nei viaggi, nello studio e nella scrittura, ha vissuto anni a Venezia per ricostruire la vita di Tintoretto, ha riempito agende di appunti a mano perché nei luoghi dove andava non poteva caricare il computer, ha contato sulla sua memoria e ha anche contato i soldi per riuscire a partire e immergersi negli archivi e nelle biblioteche, e ha deviato spesso dai libri che stava scrivendo perché ha incontrato personaggi e storie urgenti, come quella di Annemarie Schwarzenbach, che aveva promesso di scrivere entro i trentaquattro anni, l’età di Annemarie quando è morta. Per il bisogno di stare accanto totalmente, anche esistenzialmente, ai suoi personaggi. “Diventare l’altro per dire ciò che l’altro non saprebbe dire – dice Melania Mazzucco, descrivendo il meraviglioso Memoriale di Paolo Volponi – Non potevo essere sua madre, dovevo stare dalla sua parte per comprendere il significato della sua vita”. Quando Melania parla di questa donna del secolo scorso, morta nel 1942, parla di una sorella, di un’amicizia intima, di un incontro attraverso le parole, dunque indissolubile, ma parla anche del significato di una grande impresa “Avevo incontrato Annemarie in un libro di Ella Maillart sull’Afghanistan: io avevo una passione per l’Afghanistan fin da ragazzina, quando con la mia migliore amica Francesca lo avevamo scelto come luogo nostro, avevamo dodici anni e lo vedevamo sui libri. Ma appartengo alla generazione che l’Afghanistan non lo ha conosciuto perché nel 1979 è scoppiata la guerra ed è diventato un paese invalicabile. Quindi ho letto tutti i libri di tutte le persone del mondo che invece in Afghanistan ci sono andate. Ella Maillart ci era andata nel 1939 con un’accompagnatrice che lei chiama Christina e che subito mi interessa moltissimo, nel frattempo mi ricordo di un altro libro, l’autobiografia di Klaus Mann, il figlio di Thomas, in cui Klaus parla di una sua amica carissima che chiama solo Annemarie S., una scrittrice, una giovane donna misteriosa che lui pensa di non aver salvato, che forse è pazza, forse invece la sua pazzia è una grande lucidità, e io mi rendo conto che in entrambi i libri si parla della stessa persona, e in una nota di un’edizione francese del libro di Ella Maillart trovo che infatti Christina si chiamava proprio Annemarie, e non poteva usare il nome vero perché la famiglia non voleva. Sono gli anni Novanta e in Italia non c’è niente, vado in Svizzera, studio il tedesco con il vocabolario, come si studia il latino, vado a Berna, poi a Zurigo, trovo l’archivio della madre di Annemarie, mi immergo in tutto ciò che la riguarda e scopro così tante affinità fra lei e me, fra la sua vita e i personaggi di romanzi che io avevo già scritto, fra il mio spaesamento e il suo, e riesco a scrivere questo libro entro i miei trentaquattro anni, a restituire a lei una luminosità”. E’ questo che cerchi nella letteratura, qualcosa di te, del tuo cammino? “Questo è il mio metodo di lavoro: convivere con il mio personaggio, con il mondo che intendo rappresentare che diventa un pezzo della mia vita. Questo voglio fare: far rivivere. Con la Schwarzenbach bisognava rifare i suoi viaggi, per capire che cosa significa per una donna negli anni Trenta andare in Iraq, in Siria. Laddove la guerra non me lo ha impedito, sono partita. Bizzarramente mi sono resa conto che il primo viaggio di Annemarie io l’avevo già fatto, ed era stato anche il mio viaggio di iniziazione, da sola in Turchia. E’ stato strano, perché le prime impressioni del suo altrove sono state l’arrivo a Istanbul, e anche per me è stato esattamente così. Mi ero organizzata anche per andare in Congo, come Annemarie, senza rendermi conto che nel frattempo era esplosa la guerra mondiale africana con milioni di morti, quindi era impossibile. Così il viaggio in Congo l’ho fatto con Annemarie, sui suoi libri, ho visto tutte le fotografie che ha fatto. E quando ho incontrato Brigitte, che viene dal Congo, Brigitte era stupita che io conoscessi i luoghi di cui mi parlava, le foreste in cui era fuggita. Tutto si tiene, tutto ritorna e tutto ha un senso: lavorare così, vivere così, è entusiasmante”.

 

È morto la sera, a cena: di mio padre
mi è rimasta
la pantofola scivolata giù quando l'hanno messo in barella

Guardo Melania Mazzucco illuminarsi e commuoversi mentre parla delle persone della sua vita e dei suoi libri, di questa curiosità e passione per il mondo e i suoi movimenti, e le chiedo se non ci sia una specie di istinto profetico in tutto questo, qualcosa che va oltre la scrittura e che traccia una strada molto visibile e netta, anche nei temi sociali che lei spesso anticipa con i suoi libri. Melania ride. “Mi piacerebbe dire che si tratta di una capacità divinatoria anche perché nella mia famiglia c’è il mito di un trisavolo rabdomante, però siccome sono anche una persona autoironica posso dirlo solo scherzando, ma sarebbe molto bello: sarebbe il senso della storia dei Mazzucco, gente che non ha mai posseduto niente se non la capacità di vedere. Invece provo a darmi una spiegazione meno mitizzante: credo che, essendo senza pelle, a mio agio da nessuna parte e ovunque, ho questa attitudine a sentire quello che succede, ma soprattutto a vedere cose già accadute che però non sono ancora state viste: da lì parto a cercare”. Per vivere la letteratura in un modo così intenso bisogna avere accanto una persona in grado di comprendere questa attitudine, e Melania Mazzucco spesso parla di sé al plurale, includendo sempre nei viaggi e nelle ricerche e nelle avventure suo marito Luigi Guarnieri, scrittore, drammaturgo, studioso. “Noi ci siamo conosciuti giovani: siamo una famiglia più che una coppia, ognuno di noi è stato per l’altro l’amante, l’amico, il compagno, il fratello, l’editor, il consulente di tutti i progetti e i sogni. Siamo una moltitudine in effetti e abbiamo condiviso tutti i progetti l’uno dell’altro. Ci sono luoghi della terra che abbiamo abitato insieme, uno di questi è il Congo, su cui Luigi ha scritto un libro, l’altro è il Seicento olandese. Abitiamo anche i nostri libri reciprocamente. Siamo due esseri umani molto particolari, ci siamo riconosciuti: mi fa fatica perfino chiamarlo marito perché Luigi è proprio quella persona, non mi interessa che sia un uomo o che sia una donna: abbiamo costruito insieme, demolito insieme, siamo pure morti insieme. Ormai conosco anche i suoi sogni e credo che lui conosca i miei, e dividiamo anche fisicamente lo studio in cui lavoriamo”.

 

Stare insieme è di fondo una cosa dolorosa,
ci si completa
e ci si ferisce
per sempre, ma senza questo non siamo niente

Le dico che mi sembra una rarità, perché la vita interiore di uno scrittore spesso fa a pugni con la vita emersa, e i familiari si sentono esclusi o trascurati. “Ma io ho respirato e compreso tutto questo fin da bambina: io sapevo che la vera vita di mio padre, nonostante l’amore che provava per noi, era quando si chiudeva a scrivere dietro il vetro smerigliato: la sua frontiera invalicabile. Per me è inconcepibile l’idea che la vita di uno scrittore non sia condivisa dalle persone che gli stanno intorno. Perché la vita vera è quella. Stare vicino a un artista senza stare nella sua arte secondo me non è stare con lui. Io ho riconosciuto mio padre quando andavo da piccola alle prove degli spettacoli: quello era mio padre, mentre creava, a teatro come nei sentieri in montagna in cui stava in silenzio con le sue cose dentro la testa. Ero bambina ma già sapevo che lui era felice quando si chiudeva la porta dietro. Per me la famiglia è quella che condivide la verità, anche nel dolore: la persona che amavo veramente era Roberto che faceva lo scrittore, con tutta la fatica e le fragilità. E anche io voglio essere amata così, per quello che sono”. Stare insieme è quindi dividersi un dolore. “Lo stare insieme è di fondo una cosa dolorosa, ci si completa e ci si ferisce reciprocamente per sempre, però, allo stesso tempo, senza questo non si è niente”. E adesso, adesso che avete ricominciato a vivere? “Sto ritrovando i miei personaggi, le storie che il ciclone Brigitte mi aveva fatto mettere da parte. E’ stato un anno difficile, mi sono separata da persone che amavo, ho perso la casa nel terremoto, ma sono adesso nella fase del grande desiderio di scrivere, dell’astinenza struggente: mi sento in cammino, non ho raggiunto niente, credo che non si arrivi da nessuna parte però si viaggia. E a me non interessa nient’altro che questa strada. Oltre alla promessa che ho fatto a Brigitte, di andare in Congo con lei. E ad Annemarie e a tutti gli altri: di andare in Afghanistan, ma come ci è andata lei. In pace, e per ciò che sono”.

6 - continua. Per la serie “Gli scrittori del sole” sono uscite finora sul Foglio le interviste a: Edoardo Albinati, il 24 giugno; Valeria Parrella, il 1° luglio; Sandro Veronesi, l’8 luglio; Domenico Starnone il 15 luglio, Francesco Piccolo il 22 luglio.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.