Donald Trump (LaPresse)

Oltre Trump. Così il concetto di fake news sta perdendo il suo significato

Piero Vietti

Di fake news si era cominciato a parlare durante la campagna elettorale americana, per definire quelle notizie false costruite apposta per destabilizzare l’avversario e messe in circolazione sul web. Nella comunicazione politica, però, vince chi sa usare meglio certe formule a proprio vantaggio, e poco importa se queste sono nate con tutt’altro scopo.

Lunedì scorso il direttore del Wall Street Journal, Gerry Baker, ha fatto un lungo e sentito discorso alla redazione dello storico giornale finanziario conservatore, spiegando che le accuse mosse a lui di essere troppo morbido nei suoi giudizi sull’Amministrazione Trump sono una “fake news”. Anzi, ha proseguito Baker secondo quanto riportato da Politico, chi non è contento dell’approccio oggettivo del Journal, perché vorrebbe fare opposizione dura, può andare a lavorare altrove. Il direttore del Wsj ha fatto così compiere l’ultima giravolta semantica al concetto di fake news, formula ormai buona per definire qualunque notizia o accusa non gradita. Di fake news si era cominciato a parlare durante la campagna elettorale americana, per definire quelle notizie false costruite apposta per destabilizzare l’avversario e messe in circolazione sul web. Nella comunicazione politica, però, vince chi sa usare meglio certe formule a proprio vantaggio, e poco importa se queste sono nate con tutt’altro scopo.

Così in poco tempo Donald Trump ha ribaltato l’accusa di essere un fabbricatore di notizie false dicendo che i giornali lo attaccavano pubblicando fake news sul suo conto. A questo punto il caos era apparecchiato: il New York Times accusa il presidente di twittare bufale? Il presidente ribatte dicendo che è una bufala. A forza di essere ripetuta fuori contesto, una parola perde il proprio significato. La pigrizia dei media e la forza comunicativa della formula hanno fatto il resto: come riportato dal Washington Post la scorsa settimana, ormai il concetto di fake news non ha più il suo senso originale, ma viene utilizzato indistintamente per definire bufale, errori o notizie poco approfondite. Se tutto è fake news, nulla è fake news: lette da chi ha già una propria idea definita della realtà, le notizie false non fanno altro che confermare i lettori nel proprio pregiudizio, anche quando sono riconosciute come false.

Negli ultimi mesi i media stanno puntando molto sul loro essere credibili in un mondo pieno di fake news. Parole come “fatti” e “verità” ricorrono spesso nei claim pubblicitari di testate internazionali, soprattutto americane. Gli stessi giornali accusati di produrre fake news dal presidente americano si presentano dunque come portatori della verità e della “mission” di raccontare i fatti così come sono, cadendo così in uno degli equivoci più pericolosi del giornalismo, ma rimediando nei fatti con una linea editoriale decisamente schierata. Operazione necessaria, in un mondo nel quale solo il 35 per cento delle persone ha fiducia nei media, ma anche remunerativa: come riportato da Reuters ieri, New York Times, Financial Times e Wall Street Journal stanno raccogliendo i benefici del loro lavoro nei mesi della campagna elettorale, con abbonamenti digitali in aumento e conseguente crescita delle entrate pubblicitarie. Gli attacchi dell’Amministrazione Trump, che ha definito i media “il partito d’opposizione”, hanno fatto loro talmente bene che stanno rivedendo le stime per il 2017 in modo da monetizzare al massimo con gli investitori.

Non è solo lo schierarsi contro The Donald che paga, però, dato che anche il Wall Street Journal di Gerry Baker vede crescere i suoi guadagni nonostante l’accusa di essere troppo soft con l’Amministrazione. Definendo le critiche alla sua linea editoriale “fake news”, Baker chiude il cerchio e rilancia la questione sul piano del non sense. Chi ha già fatto il passo successivo è la 20th Century Fox, che per lanciare il suo nuovo film “A Cure for Wellness” ha creato una serie di siti di fake news in cui faceva girare la pubblicità della pellicola accanto ad articoli su temi divisivi come l’aborto, i vaccini e Donald Trump. Metafora perfetta: “A Cure for Wellness” parla di una falsa cura che rende i pazienti più malati.

  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.