Il lato oscuro dello spot coi papà che giocano con le Barbie

Simonetta Sciandivasci

Lo trasmette la Mattel e smonta lo stereotipo dei maschi che non possono abbandonarsi alla tenerezza. Eppure cela un inganno di fondo

L'ultimo spot della Mattel assomiglia tantissimo al trailer di un documentario o di un reality show o di un docu-reality, c'entra poco con i sogni son desideri e molto con "Operazione Tata".  Si chiama "Dads who plays with Barbie" e comincia con un papà, un super macho incartato in una t-shirt militaresca, che confessa: "I'm a typical man's man" - che significa pressappoco "sono il maschio come dovrebbe essere, quello autentico" - aggiungendo poi che se prima la domenica era il giorno consacrato al football, adesso è anche il giorno di Barbie.

 

 

Si vedono poi lui e altri quattro papà, tutti molto maschi, giocare con le proprie figlie e le bamboline Mattel, nelle rispettive case, senza seguire alcun copione o canovaccio (almeno così ha assicurato Kristina Duncan, dell'ufficio marketing e comunicazione dell'azienda). Se, finora, la rieducazione gender free aveva mostrato sempre e solo femmine che possono fare cose da maschi, questo spot corregge una tendenza che cominciava, nel voler annullare gli stereotipi, a rafforzarne uno, cioè quello secondo cui ciò che è girly (da ragazza) è per deboli, sognanti, scemotte femminucce. I papà dello spot Mattel, invece, mostrano – insegnano? - che un uomo eterosessuale adulto può divertirsi giocando con una Barbie. La Mattel, additata per decenni come fucina di un modello femminile unico, sessista e fortemente condizionante per le bambine, ha intrapreso da diverso tempo un percorso di redenzione, intervenendo tanto sui modelli delle Barbie (lo scorso anno ha presentato la prima collezione "curvy") quanto sulla portata culturale dei suoi spot. Nel 2015, in occasione della partnership con il marchio d'alta moda Moschino, l'azienda diffuse un video in cui compariva per la prima volta anche un bambino che urlava "la Barbie è così feroce!".

 

 

Su Slate, Ellissa Strauss fa notare, tuttavia, che si trattava di un bambino eccessivamente effeminato, un modello in miniatura, praticamente l'avvilente stereotipo dell'omosessuale. Si trattò di un errore condonabile o, semplicemente, di un passo obbligato? Le reazioni furono discordi. Oggi, invece, con #dadswhoplaywithbarbies, la Mattel ha fatto il pieno di consensi: nessuna campagna di marketing prima d'ora aveva pensato di trasmettere ai ragazzi l'idea che giocare come ragazze sia del tutto naturale e divertente e non depotenzi o alteri la virilità. Prima di adesso si era sempre e solo intervenuti sulle bambine, così come si continua a intervenire, se allarghiamo lo sguardo, sulle donne: è quasi sempre sull'accesso femminile a ruoli maschili che si fanno campagne, pubblicità progresso, manifestazioni e mai il contrario. Un modo di procedere che, secondo l'intuizione della Mattel, lascia trasparire una discriminazione del femminile. Pertanto, la donna manager è un simbolo che comincia a scricchiolare: alle sue - inevitabili - conseguenze problematiche, si candida a offrire riparazione l'uomo just like a woman. Nessuna post femminista ha avuto da ridire: non era mai capitato, nella lunga storia aziendale della Mattel. Effettivamente, pur dentro il discutibile solco della parità indifferenziata, questo nuovo spot fa due cose importanti: ribadisce l'esistenza di uno specifico femminile e, soprattutto, ne mostra la conciliabilità con quello maschile, dicendo così, di quest'ultimo, che a sostanziarlo non ci sono solo la temerarietà, la durezza, la competizione, ma pure la dolcezza, la levità, il desiderio di pace domestica.

 

Smantellare il gravoso stereotipo costruito addosso ai maschi, ora che la loro delicatezza non è più un tabù, comincia a farsi istanza socio-culturale. In questo senso, la nuova declinazione della paternità, ridefinita in questi anni, ha fatto da apripista. È lecito o quantomeno corretto che i veicoli di queste ridiscussioni progressiste siano i giocattoli e, quindi, in definitiva, i bambini?

 

Dopo il primo minuto e mezzo di papà che si divertono un mondo con le proprie figlie a giocare a Barbie dottoressa, astronauta e ginnasta in meditazione, lo spot si conclude con la scritta "il tempo speso nel suo mondo immaginario è un investimento nel mondo reale". “Investimento” è una parola per grandi che illumina il lato oscuro di questa e molte altre manovre correttive di ciò che impartiamo ai bambini: li facciamo giocare al mondo che vogliamo noi.

 

Nella cartella stampa di presentazione dello spot, è citata una ricerca della dottoressa Linda Nielsen della Wake Forest University, secondo la quale le ragazze che hanno avuto, nell'età infantile, un rapporto molto giocoso, confidenziale e amorevole con i propri padri, da grandi sono molto meno soggette a problemi di autostima. Nel 1973, Peter Bodganovich arriva al cinema con uno dei suoi film migliori: si chiama "Paper Moon" e racconta la storia di uno squattrinato che si guadagna a stento da vivere truffando le vedove del Kansas. Quando, però, gli viene affidata un'estranea bimbetta appena rimasta orfana, tutto cambia: da orso burbero e cinico, si trasforma in un padre. Sebbene sia la bambina per prima a doversi guadagnare la fiducia di lui, dimostrandogli le sue capacità di teppa e una piena autonomia d'azione e giudizio, sono il mondo, i sogni, le tenerezze di lei che danno forma al loro rapporto. Lui non interviene mai su di lei. L'autenticità infiocchettata dello spot Mattel, invece, è a misura di adulti. Dalla parte delle bambine, esattamente come era quarant’anni fa, continua a essere assai predominante la presenza di adulti che manipolano la loro infanzia.

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