(foto LaPresse)

Insegnare il Made in Italy a scuola non è un attentato alla Costituzione

Maurizio Crippa

Promuovere la “cultura umanistica” senza spaventare Montanari

Milano. Tomaso Montanari è storico dell’arte ed ex normalista con solida formazione umanistica alle spalle, roba d’altri tempi, si direbbe, non fosse quasi coetaneo di Matteo Renzi. Ha verve polemica e scrittura, per cui non fatica troppo, commentando su Repubblica, a infilzare con due anglismi di quelli banalmente alla moda – il Made in Italy e lo storytelling – quel po’ di tentativo di valorizzare l’insegnamento della cultura umanistica contenuto nella riforma della “buona scuola” (per gli addetti, la legge 107/2015). Poiché scopo del governo Gentiloni è proseguire le riforme dell’esecutivo precedente, è all’esame della Camera, e in rapida approvazione, anche il decreto legislativo relativo alla “Promozione e diffusione della cultura umanistica, valorizzazione del patrimonio e della produzione culturali, musicali, teatrali, coreutici e cinematografici e sostegno della creatività connessa alla sfera estetica”. Uno dei vari decreti d’attuazione previsti dalla legge 107. Il titolo è come al solito impegnativo, i fondi per sostenere l’impegno come al solito pochi (ma non zero, come scrive Montanari), l’impianto burocraticamente complicato.

Così, se all’art. 3 di un decreto per la “promozione e diffusione della cultura umanistica” si legge che occorre “assicurare agli alunni e agli studenti l’acquisizione delle competenze relative alla conoscenza del patrimonio culturale e del valore del Made in Italy”, Montanari ha gioco facile nel sentenziare: “Cultura umanistica, creatività e Made in Italy (in inglese) sarebbero dunque sinonimi: per conoscere il patrimonio culturale, la Ferrari e il parmigiano (tutto sullo stesso piano) bisogna essere creativi”. Allo stesso modo, se si legge che va “sviluppata la conoscenza e la pratica della scrittura creativa” degli studenti, Montanari può con qualche ragione commentare che si intende “indurli a coltivare la scrittura creativa e non la lettura critica di un testo”. Pertanto, poiché a pensar male non si sbaglia mai, il vero scopo della riforma sarebbe di “levar loro di mano i mezzi culturali per distinguere la verità dallo storytelling”. In tempi di post verità, è accusa grave. Sarebbe pericoloso se la scuola – confondendo cultura umanistica, marketing e “scrittura creativa”, indicasse come “via maestra” di “fare il copywriter per gli spot, o scrivere concept per reality show”. Montanari è un uomo istruito e avvertito, non si possono liquidare come snobistico passatismo alcune sue preoccupazioni; soprattutto non si può schivare “la domanda più urgente” da lui posta, che “riguarda il tipo di società prefigurata da questa idea di scuola”.

Il punto, come spesso accade nelle posizioni del titolare di un blog intitolato all’articolo 9 della Costituzione (“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione”), è che Montanari interpreta in modo tetragono e preconcetto ogni tentativo di riformare le cose dello stato (le cose nell’interesse di tutti), dai musei alla scuola, come un attentato alla democrazia, prima ancora che alla Costituzione. Che la scuola preveda, nel faticoso tentativo di adeguarsi ai suoi scopi, anche quello di insegnare che la creatività e il Made in Italy (persino le Maserati) sono parte di un patrimonio civile condiviso; che insegni a usare il linguaggio creativo come una parte delle competenze culturali – in una societàin cui ogni dodicenne ha accesso alla scrittura social – non è una bestemmia né una prassi da dittatura post moderna. Invece, per Montanari, è una mossa subdola dei nuovi poteri. Poi certo, a leggersi il decreto non è che vi si trovi un formidabile impianto culturale e didattico. E questo deriva da una certa leggerezza di una riforma che fu lanciata a furia di “narrazioni” sulla necessità di “formare ragazzi forti dei tratti identitari che tutto il mondo ci invidia”. La riforma ha voluto essere, nelle intenzioni, un togliere il tappo alla creatività dell’insegnamento. Però ha bisogno di essere riempita di contenuti, non storytelling. 

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"