Una scena tratta dalla seconda stagione della serie tv Narcos (foto LaPresse)

Altro che “Narcos”, Escobar è molto peggio di così, dice suo figlio

Eugenio Cau

In un’intervista sul País, Sebastián Marroquín rivela qual è il più grande problema della serie tv. “Mio padre mi ha sempre detto che era un bandito, un narcos. Quando guardavamo le notizie in tv non gli tremava la voce a dirmi: quella bomba l’ho fatta mettere io… Mio padre ha sottomesso un intero paese con il terrore".

Roma. Da quando, all’inizio di settembre, è uscita in tutto il mondo la seconda stagione di “Narcos”, la serie tv di Netflix che narra la storia e le gesta criminali del narcotrafficante colombiano Pablo Escobar, Sebastián Marroquín è stato intervistato dai media di tutto il mondo. Marroquín, al secolo Juan Pablo Escobar, è il figlio maggiore del narcotrafficante colombiano e il suo erede designato, che però ha abiurato la carriera criminale e l’eredità del padre, ha cambiato nome ed è diventato architetto, ritirandosi a vita privata fino a che il revival recente di Escobar, generato da “Narcos” e non solo, lo ha portato a rispolverare la storia di famiglia. Nel 2009 Marroquín, che oggi vive in Argentina, è stato protagonista del documentario “Sins of my father”, in cui gira la Colombia per chiedere scusa alle vittime dei crimini commessi dal genitore. Nel 2014, quando ormai la produzione della prima stagione di “Narcos”, uscita l’anno successivo, è alle battute finali, pubblica il memoir “Pablo Escobar: My Father”, e lo firma tornando al suo vecchio nome, Pablo Escobar, appunto.

 


Sebastián Marroquín, al secolo Juan Pablo Escobar, è il figlio maggiore del narcotrafficante colombiano (foto LaPresse)


 

All’inizio del mese, Marroquín ha pubblicato su Facebook un post in cui dice che la seconda stagione di “Narcos”, quella in cui si racconta la parte finale della carriera di Escobar, è piena di errori fattuali, e ne elenca 28, consigliando al posto della visione della serie la lettura del suo libro. Gli errori sono nomi sbagliati, fatti posizionati temporalmente in date diverse, e in generale ampie licenze artistiche che gli autori della serie si sono concessi nonostante uno stile documentaristico che alterna alla narrazione foto e filmati d’epoca. Ma solo in un’intervista uscita ieri sul País Marroquín rivela il più grande problema di “Narcos”: “Mio padre era molto più crudele di quello che si vede nella serie”.

 

In “Narcos”, Escobar è sì un criminale efferato ma anche un padre di famiglia premuroso, uno squilibrato violento ma affascinante della cui follia è tuttavia possibile ripercorrere le origini, e in un certo senso giustificarla. “Mio padre mi raccontava tutto”, dice invece Marroquín, che nella serie è rappresentato come un perenne bambino ma che in realtà alla morte di Escobar aveva già 16 anni. “Mi ha sempre detto che era un bandito, un narcos. Quando guardavamo le notizie in televisione non gli tremava la voce a dirmi: quella bomba l’ho fatta mettere io… Mio padre ha sottomesso un intero paese con il terrore”. Dopo “Narcos”, invece, “mi scrivono giovani di tutto il mondo che mi dicono che vogliono diventare narcos e chiedono il mio aiuto per farlo”. Come già notato su queste colonne, la serie di Netflix commette un errore tipico delle molte opere creative che narrano il mondo del narcotraffico latinoamericano: nel tentativo di dare spessore umano e tragicità ai loro protagonisti, li rendono fin troppo affascinanti. Ma il problema è che quasi sempre anche le figure più importanti della mitologia criminale di spessore umano ne hanno poco: figli di contadini poco istruiti o criminali comuni che hanno fatto fortuna, da Escobar al Chapo i narcos hanno sempre avuto poco da dire e molto da sparare – benché Marroquín sostenga che suo padre non abbia mai sparato un colpo in vita sua: lui ha solo dato gli ordini.

 

Così le rivelazioni di Marroquín sono in realtà il disvelamento della miseria di quella vita da supercriminale a cui di solito le “narconovelas” inneggiano. Quando eravamo in fuga alloggiavamo in tuguri disgustosi, dice Marroquín. La nonnina premurosa che si vede in “Narcos”, madre di Escobar, in realtà tradì suo figlio per salvarsi la vita. Il re dei narcos morì solo come un cane. La violenza nella vita di Escobar fu banale, non piena di passioni fortissime come si vede nella serie di Netflix, e per questo molto più terribile di quanto non appaia sullo schermo.

Di più su questi argomenti:
  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.