Tre ragioni per cui l'Italia ha sacrificato il patriottismo

Daniele Scalea
L’interesse nazionale, al contrario di ciò che ritengono molti detrattori del termine, è in realtà promotore di democrazia. L’interesse nazionale è per definizione un interesse collettivo. Può essere strumentalizzato da un ceto o da una cricca. Ma la soluzione non è provare a esorcizzarlo, rifiutandosi di parlarne.

Poche prove sono tanto ardue come provare a definire l’interesse nazionale italiano. Se già è difficile parlare con cognizione di causa di “interesse nazionale”, ancor più lo è se ci abbiniamo l’aggettivo “italiano”. Curiosamente, proprio nella terra di Machiavelli e Botero, nozioni come quelle di “interesse nazionale” o “ragion di Stato” sono particolarmente ignorate od odiate. Tanto che all’inizio di quest’anno il nostro Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, è stato obbligato a dichiarare che “l’interesse nazionale non è una parolaccia”. Difficile immaginarsi Barack Obama costretto a fare dichiarazioni del genere (negli USA, per dirne una, di recente il Nixon Center si è rinominato “Center for the National Interest”). Qui, invece, è necessario ripartire dalle basi.

 

Non si vuol far qui un discorso di tipo accademico. Uno studioso potrebbe ben contestare la stessa liceità del concetto di “interesse nazionale”, decostruendolo a cominciare dall’idea di “nazione”. Quello di nazione, direbbe, è un concetto essenzializzato dietro cui si cela una “comunità immaginaria”, per dirla con Benedict Anderson; il discorso sull’interesse nazionale è un concetto propagandistico strumentalizzato per far appoggiare ai ceti inferiori i suoi obiettivi di classe. La nostra intenzione è però quella di fare un discorso non accademico. Il postulato di partenza sarà che non ci si deve interrogare sull'esistenza di un interesse nazionale: esso esiste.

 

Deve esistere per sostanziare quel vincolo sociale che ci lega tutti in una comune entità politica, delimitata territorialmente e che non vogliamo credere vada tenuta assieme solo da un’imposizione giuridica ereditata dal passato, ma anche dalla comune volontà delle parti che la compongono. Non c’è un reale soggetto se non c’è l’autocoscienza di sé, e l’autocoscienza comporta anche l’avere una volontà: al minimo, la volontà di identificarsi (differenziandosi dagli altri) e autoconservarsi, perché gli uomini si uniscono in società per darsi forza l’un altro. Ma un soggetto che vuole, deve volere necessariamente qualcosa. Quel qualcosa, è il suo interesse: il nostro interesse nazionale, sintesi e sublimazione degl’interessi particolari. Ciò che si vuol affermare, è che se avessero ragione i critici postmoderni e l’interesse nazionale non esistesse, allora sarebbe doveroso inventarlo.

 

Si pensi anche a ciò: che l’interesse nazionale, al contrario di ciò che ritengono molti detrattori del termine, è in realtà promotore di democrazia. L’interesse nazionale è per definizione un interesse collettivo. Può essere strumentalizzato da un ceto o da una cricca. Ma la soluzione non è provare a esorcizzarlo, rifiutandosi di parlarne: allora è sicuro che, se si evita di dibatterne in maniera aperta, lasciando le decisioni all’arbitrio di circoli ristretti, diviene non più semplicemente possibile, ma assolutamente inevitabile che l’interesse nazionale si tramuti nell’interesse di pochi.

 

L’interesse nazionale è aderenza alla realtà, nel momento in cui si riconosce che se esistono una storia e un presente di politica internazionale, è perché esistono volontà concorrenti (talvolta confliggenti), portatrici ciascuna dei propri interessi. Ma è idealista nella misura in cui permette di fondare, sugli interessi certi e oggettivi, costruzioni ideali, a partire dalla riflessione sull’identità comune da cui germoglia. Che cosa lega gli individui che compongono un popolo, e cosa unisce la generazione presente a quelle degli avi?  Qui troviamo un senso al vivere civile.

 

Rimane da rispondere al quesito: perché in Italia, ma non in altri paesi, è così difficile discorrere di interesse nazionale?
Il nostro paese paga, indubbiamente, ancora il trauma della sconfitta nella Seconda Guerra mondiale, e questa è una prima ragione. Celebre è l’affermazione di Ernesto Galli della Loggia, secondo cui quella sconfitta bellica non ha rappresentato solo la morte del Fascismo, ma anche la morte della Patria, intesa quale costruzione storica e ideologica operante matrice di valori collettivi. A seguito di ciò, ha argomentato lo Storico, la democrazia di massa emersa dalla sconfitta si è però tenuta estranea alle pratiche e ai simboli tipici dello stato-nazione, concentrati nella politica militare e nella politica estera. Renzo De Felice, dal canto suo, spiegava che un “Patriottismo della Costituzione” non può reggersi senza un “Patriottismo della Nazione”.

 

Un secondo elemento è quel tipico carattere nostrano, per cui l’italianità viene sempre dopo il fazionalismo. Da noi, il più piccolo successo di campanile o partito pare esser degno della rovina patria.

 

Un terzo elemento, è il sentimento irenista tanto forte nel nostro paese. Che sia declinata in senso cristiano o in senso laico, è comunque radicata nell’Italiano l’idea che usare la forza sia sempre sciagurato. Ma ci si pensi bene: come può avere interessi chi non è disposto a nulla, ma proprio a nulla, per difenderli? Egualmente, una nazione senza volontà d’azione è una nazione a cui i propri interessi non servono a nulla, ma in costante balia degli interessi altrui. Un popolo passivo, oggetto e non soggetto della storia.

 

Una nazione che non concepisce suoi interessi, o comunque non ha la volontà di difenderli, è una nazione senza strategia. La strategia è per definizione lungimiranza: individuazione dell’obiettivo di lungo periodo e del percorso per raggiungerlo. L’Italia, se non torna a pensare al suo interesse nazionale, rimarrà miope, inconsapevole e indolente nel farsi trascinare dal vento della storia. Ma non illudiamoci: nessuna fede in esso è consentita, perché come diceva Seneca, nessun vento è favorevole a chi non sa verso quale porto è diretto.