Emergenza migranti? / 4. Aiutarli a casa loro o accoglierli a casa nostra?

Carlo Stagnaro

Porte aperte e free trade sono la miglior politica dell’immigrazione

Nei post precedenti (uno, due, tre) abbiamo visto che i politici sopravvalutano l’emergenza immigrazione, l’opinione pubblica sopravvaluta la dimensione del fenomeno, e che l’immigrazione offre un contributo netto positivo all’economia. Tutto ciò non cancella una serie di problemi concreti, che vanno dall’effettiva integrazione dei migranti all’assorbimento della nuova forza lavoro nel caso di flussi migratori di grandi dimensioni, fino alle modalità di gestione del problema.

Il dibattito politico sembra essersi polarizzato su due ipotesi contrapposte: “accogliamoli a casa nostra” oppure “aiutiamoli a casa loro”. Un approccio serio al fenomeno delle migrazioni – che naturalmente presuppone una visione a livello europeo – non dovrebbe prendere una piega in un senso o nell’altro, ma dovrebbe avere il coraggio di combinare le due cose riempiendole, al contempo, di contenuti. Rimanere al livello di slogan non è utile a trovare una soluzione e serve solo a esacerbare un’opinione pubblica tanto esasperata quanto (spesso) strabica di fronte alla questione.

“Accogliamoli a casa nostra” implica uno sforzo per lo smistamento dei migranti e un primo soccorso al momento dello sbarco (oltre alla rimozione degli ostacoli agli ingressi regolari). E’ evidente che, per favorire l’integrazione dei migranti, bisogna creare condizioni perché essi possano trovare una sistemazione dignitosa e non finiscano immediatamente preda della criminalità. A tal fine, anzitutto occorre fornire garanzie di lungo termine: l’approvazione dello ius soli è un passaggio fondamentale non solo per ragioni di civiltà ma anche di utilità (se so che i miei figli saranno cittadini come gli altri, è meno probabile che sia tentato di trascinarli con me nella dipendenza dall’economia illegale). Ancora prima, bisogna eliminare la disciplina che qualifica come reato l’immigrazione clandestina, perché altrimenti la fuga verso l’illegalità è una scelta obbligata.

“Accoglierli a casa nostra” non può essere l’unica soluzione: e non solo perché presuppone una gestione europea delle migrazioni che, oggi, appare latitante. Spesso i migranti scappano dai paesi di origine per fuggire alla guerra; altre volte alla povertà. Se dal punto di vista dello status giuridico queste situazioni possono essere differenti, nell’ottica degli incentivi economici sottostanti sono del tutto analoghe: la prospettiva di morire sotto le bombe non è né meglio né peggio di quella di crepare di fame. In molti casi, la miseria dipende da cause istituzionali nei paesi d’origine, che lasciano poco spazio alla speranza e si traducono in un forte impulso a fuggire. Spesso, però, deriva da scelte di politica commerciale dei paesi sviluppati: il protezionismo, impedendo l’esportazione di merci, favorisce l’esportazione di uomini.

“Aiutarli a casa loro”, se vuole essere un impegno concreto e non un gesto di carità pelosa, deve prendere le mosse dal superamento unilaterale delle attuali barriere allo scambio, specie di beni agricoli e specie coi paesi africani da cui proviene gran parte dell’immigrazione verso l’Europa. La questione è talmente ovvia che non mi dilungo, limitandomi a un paio di consigli di lettura (Calestous Juma e Angus Deaton). Possono esserci ottime ragioni – politiche, sociali e di tutela del territorio – per proteggere gli agricoltori europei, ma non bisogna stupirsi se i muri tariffari aprono poi le autostrade del mare per i migranti. Quindi, dare sostanza all’ “aiutarli a casa loro” significa prendere carta e penna e stilare un lungo elenco di dazi e barriere non tariffarie che si propone di eliminare, per favorire imprenditorialità, investimenti e occupazione nei paesi d’origine dei migranti.

In ogni caso, e per concludere, la migrazione è frutto di un basilare bisogno umano: migliorare la propria condizione. Per quanto l’integrazione possa porre delle sfide, una politica di chiusura appare autolesionista e ingiustificabile sul piano morale. Sarebbe accettabile solo se si potesse provare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l’immigrazione impone un costo sociale elevato alle comunità di destinazione, ma così non è: anzi, è probabilmente vero il contrario (persino nel caso di migrazioni improvvise e di grandi dimensioni). L’obiettivo di una crescita inclusiva non è incompatibile con l’immigrazione (anzi, la richiede) né con l’aspirazione ad “aiutarli a casa loro”. Questo deve prendere la forma di politiche effettivamente pro-crescita (come la fine del protezionismo) e non di elargizioni da governo a governo che, sovente, non fanno altro che rafforzare i regimi antidemocratici le cui scelte sono all’origine della miseria nei paesi d’origine (“an excellent method for transferring money from poor people in rich countries to rich people in poor countries”, per usare le parole di Peter Bauer; vedi anche qui e qui).

Strumentalizzare l’immigrazione a fini politici è due volte pericoloso: perché amplifica tensioni sociali esistenti e perché rischia di tradursi in politiche che fanno male tanto ai migranti quanto ai nativi. Le persone sono più mature di quanto i politici credano, come emerge da alcuni esperimenti condotti proprio sulla percezione dell’immigrazione: se ricevono informazioni corrette, i cittadini aggiustano le proprie opinioni. La responsabilità di media e politici, allora, dovrebbe essere quella di non gettare benzina sul fuoco ma tenere sempre presente (e rendere nota in modo laico) la realtà dei fatti. Prima ancora che mettere in discussione il futuro di persone che hanno tutto il diritto di lasciarsi alle spalle una vita fatta di orrori e di stenti, giocare la campagna elettorale sulle spalle dei migranti equivale a porre un’ipoteca sul futuro degli italiani.

Cari politici, fermatevi prima che sia troppo tardi.

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