Papa Francesco (foto LaPresse)

Fedeli, obbedienti e flessibili. Così il Papa vuole i suoi collaboratori

Matteo Matzuzzi

Fase 2 del pontificato, tra manovre curiali e tensioni africane

Roma. Che il Papa argentino e il cardinale tedesco non fossero in sintonia significa ribadire un’ovvietà. Per Francesco, Gerhard Ludwig Müller – il prefetto della Dottrina della fede sostituito sabato scorso – scontava il peccato originale di essere “rigido” e la traduzione perfetta del pensiero papale la diede a mezzo intervista ben tre anni fa l’ascoltatissimo Oscar Rodríguez Maradiaga, il porporato honduregno che Bergoglio ha messo alla guida del C9 e che è tra i massimi consulenti del corrente pontificato: “E’ un tedesco, un professore di Teologia tedesco. Nella sua testa c’è solo il vero e il falso. Però io dico: fratello mio, il mondo non è così, tu dovresti essere un po’ flessibile quando ascolti altre voci. E quindi non solo ascoltare e dire no”.

 

Non è tanto questione di orientamento, progressista o conservatore, il tema dell’epurazione del prefetto della congregazione per la Dottrina della fede a neppure 70 anni d’età. Né di mirare a cambiare la dottrina cambiando gli uomini che guidano i dicasteri vaticani. E’ che il Papa pretende fedeli esecutori della rivoluzione messa in campo all’alba del pontificato e cioè uomini impegnati a gettare le fondamenta dell’ospedale da campo aperto a tutto il popolo fedele (e non) di Dio. Francesco non vuole tentennamenti né tollera le troppe esternazioni fuori linea. Uno può pensarla come vuole sui massimi sistemi, essere d’accordo o no con la svolta pastorale da lui inaugurata, tendere più dalla parte di Müller o della sua antitesi Victor Manuel Fernández, l’autorevole vescovo teologo argentino autore del saggio Sáname con tu boca. El arte de besar. Ma Francesco non ammette il controcanto né le titubanze. Ecco perché la scelta del gesuita Luis Francisco Ladaria Ferrer, il settantatreenne ex professore della Gregoriana apprezzato assai da Benedetto XVI, non può essere letta usando il solito schema conservatori vs progressisti. Ladaria Ferrer si definì “teologicamente moderato” in un’intervista neppure troppo vecchia concessa al mensile 30 Giorni, ma in realtà ha sempre avuto fama di conservatore all’interno della Compagnia. Tra i due sinodi, mentre i padri già s’accapigliavano sui sacramenti, l’allora numero 2 del Sant’Uffizio scriveva che no, la comunione ai divorziati non poteva proprio essere data se i partner divorziati e risposati civilmente non avessero deciso di vivere come fratello e sorella. Una risposta, questa, che potrebbe senza problemi far parte dei famosi dubia spediti a Santa Marta la scorsa estate.

 

Francesco è un Papa che decide spesso in solitudine, che gestisce da sé la propria agenda. Disse nella sua prima grande intervista alla Civiltà Cattolica che è vero, un certo “autoritarismo” nel governo della chiesa lui ce l’ha, anche perché l’ha sperimentato nella Compagnia di Gesù, il cui capo è pur sempre un generale cui è dovuta obbedienza assoluta e fedeltà totale. Sono questi i due elementi che il gesuita Bergoglio chiede ai collaboratori. Di conservatori, dopotutto, non ne ha solo congedati, ma pure promossi (Robert Sarah su tutti, benché in una fase del pontificato più tranquilla, non ancora così caratterizzata da fronde, veline giornalistiche e scosse telluriche sul solito tema degli scandali sessuali).

 

In ogni caso, con il cambio di guida alla Dottrina della fede inizia la seconda fase dell’èra bergogliana, probabilmente quella della stabilizzazione delle linee-guida diramate ormai quattro anni fa. Una fase che però non si preannuncia per nulla tranquilla, se è vero che dalla Nigeria è giunta la risposta all’ultimatum papale di qualche settimana fa alla diocesi di Ahiara, che da anni impedisce al vescovo regolarmente eletto (nominato da Joseph Ratzinger nel 2012) di fare il proprio ingresso. Francesco, ricevendo una nutrita delegazione del clero locale, aveva chiesto un atto d’obbedienza formale e per iscritto entro trenta giorni da parte di tutti, preti, religiosi e religiose. Obbedienza totale al Papa, senza distinguo o precisazioni. Pena, la sospensione a divinis. Sabato, quando alla scadenza dell’aut aut mancava poco più d’una settimana, in tremila (comprese decine di sacerdoti) hanno occupato la locale cattedrale, ribadendo che il vescovo Peter Okpaleke lì non metterà mai piede. Il presidente del consiglio diocesano ha detto che l’obiettivo della protesta (iniziata con la preghiera del Rosario) non è “il Sommo Pontefice Francesco”, bensì proprio il vescovo designato, reo d’appartenere a un’etnia diversa. La soluzione non pare imminente e il caso rischia di tornare presto a Roma, sulla scrivania lignea di Santa Marta.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.