Il ruolo di laici e movimenti

Chiese vuote e pochi preti. E' la crisi del modello religioso italiano

Matteo Matzuzzi

Troppe parrocchie e messe poco frequentate. Sacerdoti chiamati a guidare fino a 15 comunità, messe "non garantite". Un cambiamento sociale e culturale che affonda le radici negli scorsi decenni. Un'inchiesta

Roma. “Piccole parrocchie, sacerdoti in età avanzata, quasi nulle le ordinazioni di nuovi sacerdoti. Viene deciso l’accorpamento di parrocchie con un solo parroco e altri sacerdoti collaboratori. Ma non si possono cancellare per decreto mille e più anni di storia di tante realtà e identità parrocchiali”, sbottava un paio d’anni fa don Achille Lumetti, parroco di Madonna di Sotto, nel modenese. Ce l’aveva con le “integrazioni”, con le nuove unità pastorali che i vescovi un po’ dovunque stanno facendo nascere per tenere in piedi una presenza cristiana in paesi di mille (o meno) anime che costellano l’Italia da nord a sud. Che poi sia un tentativo di fermare un fiume in piena con una diga di carta velina, questo lo dirà il tempo. Per ora si va avanti come si può, tra progetti (tanti) e speranze che con l’andare degli anni qualcosa cambi, che magari la secolarizzazione arretri e che, chissà, le arche in cui rifugiarsi della cosiddetta Opzione Benedetto costruite in attesa che la marea secolarizzante passi (è da poco uscito negli Stati Uniti il saggio The Benedict Option, di Rod Dreher di cui ha dato ampio conto su questo giornale Mattia Ferraresi) possano rientrare nei porti e dare inizio alla rievangelizzazione dell’occidente. Anche perché “la secolarizzazione non è certo irreversibile”, dice al Foglio il professor Massimo Borghesi, professore ordinario di Filosofia morale all’Università di Perugia. “Tutto il periodo che va dal 1989 al 2001 è stato segnato dal trionfo della secolarizzazione che, peraltro, s’era già affermata negli anni Settanta. L’occidente considerava come dogma l’irreversibilità di questo fenomeno e, al contempo, la restrizione della cristianizzazione ad ambiti riservatissimi”. Poi è cambiato tutto: “Con l’11 settembre 2001, questo schema è entrato in crisi. La religione è stata riportata in primo piano, sia nella sua valorizzazione positiva sia nel suo aspetto più aberrante, come accade nel terrorismo religioso. Assistiamo da allora al ritorno del momento religioso come qualificante la modernità”.

 

"Prima della rivoluzione antropologica pasoliniana c'era un popolo cristiano, un ethos", dice il professor Massimo Borghesi

Insomma, “la dimensione religiosa non era morta: era semplicemente sopita”. Nelle ventisettemila parrocchie italiane, vedere questa rinascita è impresa spesso ardua. Spostandosi dal centro e andando in quelle periferie (anche geografiche) di cui tanto parla il Papa si vedono i segni del cambiamento, che è prima di tutto culturale: a messa, la domenica, ci va sempre meno gente, anche se è bene procedere con i piedi di piombo nell’elevare a dogma certe sensazioni. “Se c’è stato, il grande balzo all’indietro è stato negli anni Settanta, non c’entra Papa Francesco”, osserva per prima cosa il sociologo Massimo Introvigne, direttore del Cesnur (Centro studi sulle nuove religioni). “A rigore stretto, però, non sappiamo se davvero ci va meno gente, perché abbiamo solo dati Cati (computer assisted telephone interviews, cioè interviste telefoniche) fino a pochi anni fa”.

A fronte di un dato incerto sulla diminuzione dei fedeli – personalmente credo che i fedeli fossero davvero di più negli anni Cinquanta e Sessanta, ma dobbiamo avere l’umiltà metodologica per dire che andiamo a tentoni, mentre non credo assolutamente fossero molti di più dieci anni fa e probabilmente neppure negli anni Settanta e Ottanta – c’è un dato assolutamente certo, e cioè la diminuzione delle vocazioni”, prosegue Introvigne.

 

Statistiche, dunque, da prendere con le molle. Anche perché “la questione di quanti frequentano davvero la chiesa la domenica è in assoluto la più controversa nell’ambito della ricerca sociologica mondiale. La tecnica Cati – spiega Introvigne – è entrata in crisi perché sono spariti gli elenchi del telefono e pochi hanno un telefono fisso e con i cellulari è tutto più difficile. Ma, soprattutto, è entrata in crisi perché alcuni studiosi americani hanno insinuato il tarlo del dubbio sul cosiddetto over reporting, cioè sul fatto che molti di quelli che dicono di andare a messa (o al culto protestante) in realtà non ci vanno. Ci si è così resi conto che le Cati misurano quanti dicono di andare a messa e non quanti vanno a messa: sono cose molto diverse. E’ lo stesso limite delle inchieste dell’Istat, che arrivano a rilevare fantastici trentatré per cento ieri e trenta per cento oggi, dati che nessun sociologo italiano considera veri”.

 

Per indagare la crisi della parrocchia italiana è utile capire come essa si sia sviluppata nel corso del tempo. “Come oggi la conosciamo, è il prodotto di una strategia pastorale di sofisticata concezione e di realizzazione piuttosto recente, nel quadro di quel processo di modernizzazione religiosa che ha il suo principale protagonista in Pio XI”, diceva già quattordici anni fa il professor Luca Diotallevi, anch’egli sociologo e docente all’Università Roma Tre, in un seminario sul progetto culturale della Cei. “La parrocchia proposta da questa strategia è pensata come capace di integrarsi ad altre iniziative pastorali specializzate. Questa integrazione – proseguiva – prevede un ruolo primario per le istituzioni pastorali territoriali e un ruolo importante ma non autonomo per le altre iniziative. Da qui l’immagine ‘una prima gamba e molte seconde gambe’. La parrocchia italiana novecentesca è tanto istituzione della ‘prima gamba’ quanto snodo istituzionale e organizzato dell’integrazione tra ‘prima gamba’ e ‘seconde gambe’”. Modello entrato in crisi, con la parrocchia che “per un verso non ha più la capacità di suscitare e amministrare una religione dei grandi numeri, mentre per l’altro verso non è capace di appagare la domanda di identità di cui abbisognano le forme religiose dei piccoli numeri”. E “ciò era ben chiaro sin dagli inizi degli anni Settanta”, diceva Diotallevi, che in questo concorda con Introvigne.

 

La domanda, a questo punto, dato il contesto profondamente mutato è se sia preferibile la situazione odierna, con pochi fedeli ma buoni, cioè convinti di quel che si celebra durante la messa – “i pochi ma buoni però non sono mai stati un’opzione della chiesa, cattolica e per sua natura espansiva”, dice Introvigne, che ha grosse riserve pure sull’Opzione Benedetto e sulla teoria delle “minoranze creative” di ratzingeriana memoria, a suo giudizio valida per certe zone dell’Europa occidentale ma che non può diventare un programma per tutta la chiesa – o se fosse preferibile la situazione precedente: chiese affollate ma scarsa sensibilità per il Mistero. “Potenzialmente era meglio allora, nel senso che prima della celebre rivoluzione antropologica pasoliniana c’era un popolo cristiano”, spiega Borghesi. “Negli anni Cinquanta c’erano ancora un ethos, una sensibilità permeati dalla fede, anche quando questa non veniva esplicitamente professata. La sensibilità morale era quella e c’era una grande partecipazione popolare ai riti della tradizione cristiana”. Il “vero problema”, aggiunge, “è che la chiesa non si dimostrò all’altezza di quella partecipazione. A fronte di una società che stava cambiando a livello sociale e di mentalità, con l’introduzione della tv e del modello americano, la chiesa si limitò a un messaggio di tipo morale e – aggiungerei – a una morale di tipo moralista. Tralasciando, così, una proposta cristiana che arrivasse al cuore delle persone e che, soprattutto, potesse diventare proposta di vita capace di accompagnare i laici nella vita normale, non solo in quella domenicale”. Insomma, questo è stato il limite: “Si è persa una tradizione popolare e non si è stati all’altezza del momento storico. Da qui deriva il messaggio di Papa Francesco, così poco compreso, concernente la priorità dell’annuncio sulla dottrina morale”.

 

Che poi è tutto da dimostrare pure che cinquant’anni fa le chiese fossero piene. Il grande sociologo Rodney Stark, per esempio, lo nega risolutamente. Così come ha espresso tutte le sue perplessità sul cosiddetto medioevo europeo cristiano, con cattedrali gremite di fedeli e folle oranti e adoranti. Stark ha diviso la superficie calpestabile delle chiese medievali e il numero presunto delle messe per quanti potevano contenere. Ne è risultato che che l’affluenza non era più di un quarto o di un terzo. Praticamente quasi gli stessi numeri di adesso. Va fatta una distinzione, argomenta Introvigne: “Il bicchiere è mezzo vuoto se guardiamo alla Polonia, dove la conferenza episcopale locale fin dai tempi del comunismo inventaria tutte le messe, gli ospedali, i movimenti e i santuari, inviando in ogni luogo volontari con macchine contatrici. E poi fa fare una serie di interviste telefoniche nella stessa zona. I dati, in Polonia, documentano che il sessanta per cento delle persone dice di andare a messa e ci va realmente poco meno del quaranta. Sono dati altissimi”. Ma il bicchiere può essere anche mezzo pieno. E’ sufficiente spostarsi di qualche migliaio di chilometri più a ovest: “In Francia i pochi conteggi effettuati alle porte delle chiese danno il cinque per cento di praticanti domenicali e il quindici in Spagna. L’Italia, quindi, ha tenuto meglio degli altri grandi paesi mediterranei”.

 

"Il dato certo è il calo delle vocazioni, ma il celibato non c'entra: anche i protestanti hanno difficoltà a reclutare pastori"

Eppure, i piani per la ristrutturazione del sistema parrocchiale italiano avanzano un po’ ovunque. Nel 2003, la Cei dedicò al tema l’assemblea generale, per poi tornarci (nel gennaio successivo) in occasione del Consiglio permanente. La crisi era già evidente e gli sforzi per riproporre la centralità di quel modello hanno incontrato ostacoli il più delle volte superabili con gran fatica e dispendio d’energie. Già allora, Diotallevi diceva che “la scelta dei vescovi italiani di riconcentrarsi sulla parrocchia, sul prete diocesano e sull’Azione cattolica potrebbe essere giunta tardi”. Forse “non troppo tardi”, ma di certo il quadro appariva compromesso. “Delegittimare la parrocchia equivale a delegittimare la più diffusa – se non l’unica – istituzione religiosa in Italia in forma ‘di chiesa’”, aggiungeva. Poco più d’un decennio dopo, il discorso è superato; non si tratta più di rilanciare la parrocchia, bensì di convincere i fedeli che “così come non vanno più nel negozietto sotto casa a fare la spesa, preferendo l’ipermercato situato a chilometri di distanza, altrettanto non possono più avere il prete di fronte alla propria abitazione”, dice il sociologo Franco Garelli, autore del recente Educazione (il Mulino) e ancor prima, sempre per l’editore bolognese, di Piccoli atei crescono. Davvero una generazione senza Dio (2016). Si prenda il caso della diocesi di Torino, con dati abbastanza recenti: a fronte di 355 parrocchie sparse in 158 comuni, i sacerdoti sono 260. Ergo, 46 hanno doppi incarichi, 14 tripli, 3 quadrupli. Al 2014 – ma la situazione non è troppo mutata – mancavano all’appello 95 parroci per coprire le esigenze. Naturale, dunque, che si faccia come a Udine, erede del Patriarcato di Aquileia, diocesi vastissima (dal confine con l’Austria arriva all’Adriatico), dove pochi mesi fa l’arcivescovo ha pubblicato le linee-guida per l’istituzione delle Collaborazioni pastorali. “Le parrocchie – si legge nel lungo documento – fino a pochi anni fa riuscivano a svolgere la missione di ‘rendere visibile la chiesa come segno efficace dell’annuncio del Vangelo per la vita dell’uomo nella sua quotidianità e dei frutti di comunione che ne scaturiscono per tutta la società’. Ci riuscivano perché avevano le risorse per offrire alle persone del loro territorio le ‘azioni’ pastorali che il vescovo aveva il dovere di assicurare in tutta la diocesi. Grazie a esse, ognuno poteva trovare nella propria parrocchia gli aiuti necessari per ricevere la fede e il battesimo, per maturare nella vita cristiana e per testimoniarla nel mondo, per camminare nella santità”. Ora tutto è cambiato: “Molte parrocchie, negli ultimi tempi, non hanno più persone e risorse per mettere in atto, in modo efficace, tutte queste ‘azioni’ a favore dei propri cristiani. Dobbiamo, di conseguenza, constatare che non sono più in grado di svolgere in modo sufficientemente efficace la loro missione. Questo è dovuto a diverse cause. Tra le altre, ricordiamo: il ridimensionamento demografico di molte comunità a causa di una diversa distribuzione della popolazione sul territorio, la mobilità delle persone che cambia il loro rapporto con l’appartenenza territoriale, la diminuzione del numero di sacerdoti”. La conseguenza è che si applicherà quanto stabilito dalla Nota pastorale della Cei Il volto missionario delle parrocchie, e cioè procedere con l’integrazione delle varie entità parrocchiali: “Le parrocchie non possono agire da sole: ci vuole una pastorale integrata in cui, nell’unità della diocesi, abbandonando ogni pretesa di autosufficienza, le parrocchie si collegano tra loro, con forme diverse a seconda delle situazioni”. In pratica, si legge, la Collaborazione pastorale “è affidata a un parroco che ha la responsabilità pastorale di tutte le comunità che formano la Collaborazione pastorale e per questo è nominato parroco di ognuna”. Il che significa che un unico sacerdote sarà parroco anche di quattordici parrocchie diverse. Con inevitabili conseguenze quali, ad esempio, la turnazione delle messe domenicali tra le varie località.

 

“Il problema è l’attuale organizzazione delle parrocchie, cioè il fatto che la chiesa non ha fatto dei grandi interventi dal punto di vista organizzativo”, osserva Franco Garelli, che aggiunge: “Ci sono tante piccole parrocchie su territori che hanno perso quote di popolazione; sono comunità abituate ad avere un servizio sotto casa, prossimo, vicino. Questo è un problema rilevante, c’è un cambiamento nella società fortissimo. E’ quella che si potrebbe definire ‘la secolarizzazione dolce’, non traumatica. Il vero problema non è tanto la percentuale di chi va a messa la domenica, che è comunque alta anche rispetto ai numeri scarsi che presentano altri fenomeni aggregativi, bensì la distribuzione diseguale delle parrocchie. Diventa quindi complesso aggiornare il modello della parrocchia a queste condizioni così mutate rispetto al passato”. Soprattutto, risulta sempre più difficile far sì che l’auspicio messo per iscritto dalla Conferenza episcopale italiana nel 2003, e cioè – per dirla con il padre dehoniano Mauro Pizzighini – che le parrocchie continuino “ad assicurare la dimensione popolare della chiesa, tessendo rapporti diretti con tutti gli abitanti del territorio e manifestando una profonda sollecitudine verso i più deboli e gli ultimi”, possa realizzarsi.

 

Il futuro con un parroco ogni dieci comunità. Crisi irreversibile? Chissà, ma il tempo del prete sotto casa è finito

Il dato numericamente certo, anche in Italia, è il calo delle vocazioni. Numeri che spiegano in parte la necessità di far fronte alle collaborazioni, integrazioni, accorpamenti, fusioni. “La colpa non è del celibato, perché anche le grandi denominazioni protestanti hanno difficoltà a reclutare pastori”, dice Introvigne, aggiungendo che “così come il calo dagli anni Settanta della pratica religiosa non dipende dal Vaticano II perché ci sono stati fenomeni analoghi tra i protestanti storici e gli ebrei”. Come rimediare? Serve concretezza: “Ci sono molte cause complesse per spiegare la diminuzione delle vocazioni, non ultimo il calo demografico”, sottolinea il direttore del Cesnur, “ma certo il problema non si risolverà a breve. Io non amo le unità parrocchiali, ma chi non le vuole deve proporre altre soluzioni. La vita religiosa nelle parrocchie italiane – e lo dice anche il Papa – è talora più stanca rispetto alle chiese gestite da religiosi e da movimenti. D’altra parte, negli Stati Uniti si parla di rinascita della parrocchia. Insomma, dipende da chi è il parroco”.

 

Un bel problema, nota Garelli, al punto che “è ormai necessario rivedere il ruolo del sacerdote in una situazione mutata. Serve dare ampio spazio ai laici e le condizioni per un cambiamento radicale positivo ci sono. Qualche tentativo viene già messo in pratica, ma c’è bisogno di orientamenti precisi anche a livello di formazione del clero”. Borghesi si richiama al Papa: “Francesco ci ha detto di stare attenti, avvertendoci che abbiamo sbagliato nell’educazione dei laici perché abbiamo preteso che i laici impegnati fossero solamente quelli che entravano nel consiglio pastorale. E così abbiamo formato un’élite laicale che è assolutamente clericale. Questa è la pretesa di utilizzare i laici secondo una logica clericale. Bisogna invece entrare in una logica che sostenga i laici nel vivere la fede nella normalità della vita quotidiana”. Quanto alle parrocchie, è vero che c’è una distribuzione diseguale, anche se in primo luogo essa è qualitativa: “Ce ne sono alcune che svolgono un compito notevole, in diversi campi. In altre, invece, si respira un clima stantio, vecchio. Un clima, per l’appunto, clericale”.

 

Il rapporto complicato con i movimenti, la richiesta sinodale del cardinal Martini di "inserirli nella pastorale parrocchiale"...

Certo, c’è il rischio che lo sfilacciamento del tessuto culturale italiano – fatto per lo più di piccoli borghi che per decenni avevano nel parroco la figura primaria di riferimento – continui inarrestabile. Il percorso battesimo-catechismo quotidiano-vita di parrocchia nelle sue molteplici forme che le generazioni nate fino agli anni Sessanta hanno vissuto, con il tempo scandito dai momenti religiosi della comunità, appartiene al passato. “Stiamo andando verso un impoverimento delle relazioni sociali, con una minore presenza sul territorio di punti di riferimento che permettono di aggregarsi”, dice Franco Garelli. “E’ un problema reale. Il clero ha difficoltà a continuare a praticare un modello che implica forti incombenze e pesanti carichi di lavoro”. La ricetta però non è detto che sia la cosiddetta “importazione di preti” dal sud del mondo, anzi. “Io ho sempre guardato con perplessità questo fenomeno. Africa e America latina non sono Europa. Paradossalmente, si rischia di privilegiare l’occidente sempre più secolarizzato togliendo energie e forze a contesti dove la situazione, invece, è all’opposto”.

 

Ma la situazione non è persa, o almeno non del tutto. Il professor Borghesi è convinto che la chiave di volta per invertire la rotta possa, in qualche modo, essere rappresentata da Francesco. Non c’entrano le disquisizioni sulla contabilità delle folle osannanti, ma “il carisma di questo Pontefice, che viene dall’esperienza del cristianesimo popolare latinoamericano e che sta indicando la possibilità di un nuovo incontro tra fede e realtà popolare. Lo fa puntando sulle persone semplici, su un messaggio evangelico che va direttamente al cuore dei vicini così come dei lontani. La gente in molti casi torna a messa”. Merito di Bergoglio? “Non dico dipenda solo dal Papa, sia chiaro. Ma qualcosa si è messo in moto. Poi, dipende molto dal parroco: la gente torna ad andare a messa la domenica se trova parroci che hanno umanità e cuore”.

 

Spesso, le realtà parrocchiali “più vive” sono quelle guidate dai movimenti, anche se, commenta Borghesi, “pensare che le parrocchie rette da movimenti siano le uniche vive o destinate a sopravvivere, non è giusto. E’ necessario, certo, che il parroco sia aperto anche a queste esperienze, soprattutto (e in primo luogo) come provocazione a lui. Ancora una volta, bisogna uscire da se stessi e lasciarsi interrogare dai bisogni e da quanto di vivo è intorno a noi”. Più severo il giudizio di Diotallevi, che già tempo fa denunciava una “competizione” tra movimenti che si ripercuoteva inevitabilmente sulla “struttura territoriale della chiesa”, tanto che la “loro autonomia pastorale dai vescovi e dai parroci – non ‘amici’ –  è assai elevata”. Suggeriva, il sociologo di Roma Tre, di guardare in particolare la realtà dell’Opus dei. E non è un caso se di questa dialettica, ora positiva e feconda ora problematica, se ne sia parlato abbondantemente al Sinodo dei vescovi sull’Europa, ben diciotto anni fa. La questione del rapporto tra la parrocchia e i movimenti fu avanzata, in quella sede, dal cardinale Carlo Maria Martini, in uno dei suoi tre famosi “sogni” sul futuro della chiesa: l’allora arcivescovo di Milano chiedeva un maggiore inserimento dei movimenti laicali e delle nuove comunità nella pastorale parrocchiale, al fine di circoscriverne (per molti, di limitarne) l’azione. Da allora il dibattito è proseguito, in modo sempre più stanco.

 

Intanto, nell’attesa che la nuova evangelizzazione faccia il suo corso, non resta altro che prendere atto della fine di un’epoca scandita dai rintocchi dei campanili. Capire, insomma, che “L’Angelus” di Jean-François Millet, fotografa un tempo ormai andato.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.