Papa Francesco (foto LaPresse)

È vero, la dottrina non basta, ma anche il bergoglismo serve a poco

Luca Diotallevi

La confusione nella Chiesa, tra i testi e i gesti del Papa. Chi vende al pubblico l'idea che con Francesco ci sia il "rompete le righe" è un pericolo letale

La confusione in cui versa la Chiesa cattolica è sotto gli occhi di tutti. Merita rispetto. Va guardata in faccia. Se lo si fa, si comprende che nella vita cristiana e nella Chiesa la confusione e il dubbio sono un peso di cui non ci si può mai liberare del tutto. Dal quale non si è mai stati liberi, neppure agli inizi. Oggi, poi, mentre giunge a fine corsa la forma confessionale del cristianesimo (moderna e continetale), la confusione percepita è esasperata dal fatto che la domanda di verità conserva spesso la forma di una domanda di dottrina: forma storicamente datata, nobile e ora inadeguata. Il fatto che nella sua purezza la forma-dottrina sia stata ignota a quindici secoli di cristianesimo, che altrimenti hanno pensato e cercato ortoprassi ed ortodossìa, non va vissuto come un dramma.

 

Il motore e il registro delle domande, utilissime e rispettabilissime, riproposte dal card. Caffarra nella recente intervista al Foglio è quello di una logica imperniata sul principio di “non contraddizione” applicata a una verità cristiana come un insieme di proposizioni universali, ovvero: come una dottrina. Se si chiede alla Chiesa di dare al proprio insegnamento la forma esclusiva della dottrina, fatalmente si resta delusi. Quello che la Chiesa insegna è sempre stato molto meno e molto più. Finché ci si aspetta una dottrina si patisce una sovrastima della confusione e del dubbio che fino all’Ultimo Giorno affiancheranno la fede e la Chiesa. Il principio di contraddizione vale quando il tempo non scorre.

 

Al contrario, la “verità esistenziale” (Caffarra) del Vangelo ci è venuta incontro nel corso del tempo e anzi ha reso questo un intreccio instabile di molteplici temporalità. La verità cristiana ci è venuta incontro nel secolo, durante esso ci salva, ci accompagna e ci orienta. Nella complessità, contingenza e inestricabile connessione di ciascun momento del secolo non c’è più modo di separare atti, circostanze e coscienza (se non in sede analitica: utilissima e astratta). Per questa ragione (ma non fatelo sapere ai cinici sempre in cerca di scuse) sant’Agostino ha scritto che “Dio può chiedere oggi cose che ieri vietava” e von Balthasar che la “la verità cristiana è in questo come la manna del deserto: non la si può mettere da parte e conservare; oggi è fresca, domani è marcia”. Ciò non cancella il fatto che “tutto ciò che è genuinamente vero rimane” (von Balthasar), ma ci aiuta a capire perché a esso non sempre si arriva con il solo ausilio del principio di contraddizione applicato a proposizioni universali.

 

Questo non vale solo per la teologia morale, ma per ogni forma di ricerca della verità. Ciò non significa che dottrina e logica non abbiano un ruolo nel vivere, pensare e comunicare la fede, tutt’altro. Aiutano, correggono, mettono in guardia, a volte mettono salutarmente con le spalle al muro. Debbono avere la parola, ma non la prima né l’ultima. Il principio di contraddizione è sempre utile, non di rado necessario, a volte fuorviane. L’orizzonte resta quello del discernimento, non quello della deduzione. Il dramma del cattolicesimo e più in generale del cristianesimo contemporaneo è che ha vinto. A partire dall’Occidente (piaccia o no), ha fatto uscire una grande parte dell’umanità dalla minorità. Quello che ieri bastava capissero pochi teologi, qualche vescovo e un piao di laici illuminati, oggi – estremizziamo – o lo capisci, e lo accogli come una Grazia, oppure non ce la fai a credere (e trasformi la fede in sentimento, dottrina o merce). Di questo prende coscienza il Vaticano II.

 

Questa è la durissima profezia di Paolo VI: “la vita cristiana (…) domanderà a noi cristiani moderni non minori, anzi forse maggiori energie morali che non ai cristiani di ieri”. Una percentuale di cristiani (senza precedenti per lo meno dal III secolo) deve fare i conti che con il fatto che seguire Gesù e vivere la Chiesa non esenta da dubbio e confusione. “Non molle e vile è il cristiano, ma forte e fedele” (Paolo VI): questa nuova condizione richiede più vita di Chiesa, non meno. Più magistero, non meno. Alcuni testi di Francesco non sono all’altezza dei suoi gesti. A che serveribbero, però, testi (migliori) senza gesti?

 

Guardare a Francesco attraverso il varco di rinnovamento aperto dal gesto di rinuncia di Benedetto XVI aiuta ad apprezzare ancor più i gesti di Francesco stesso. Purtuttavia servono anche testi. Testi che non negano, ma che aiutano a riconoscere e portare la confusione e il dubbio che accompagnamo il credere reale, condizione che oggi è di tanti e non di pochi. Anche qui la lezione da non dimenticare è quella di Paolo VI, il papa della Dignitatis humanae (decreto sulla libertà religiosa) e della Humanae vitae (e delle catechesi sulla coscienza che le dedicò). Testi non semplici. Tuttavia, oggi pappette e slogan non nutrono più. Serve pasto solido. Che intorno ai pontefici sorgano corti è inevitabile, ma è un dovere combatterle e disperderle. Come la dottrina non basta, così il “bergoglismo” non serve. Altrimenti, quando i gesti saranno passato, i testi saranno ancora presente e la nostalgia della verità in forma di sola dottrina avrà la meglio. Valutare caso per caso richiede più rigore, disciplina e comunione di quelle che servono per dedurre. Chi vende al pubblico la presunta “dottrina-Bergoglio del rompete le righe” è un pericolo letale.

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