Corte Di Giustizia Europea

Così un tribunale ha deciso che Charlie non può vivere

Giulia Terlizzi

L’autoritarismo dei giudici dietro alla maschera del “miglior interesse del fanciullo”

Oggi la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dai genitori di Charlie Gard per il mantenimento della respirazione artificiale nei confronti del figlio. I giudici della Corte hanno dato ragione a quelli inglesi confermando la piena competenza delle Corti britanniche a decidere sul caso in questione. 

   

L’affidamento riposto dai genitori di Charlie nei giudici di Strasburgo non sembra esser stato, purtroppo, oggetto di approfondita considerazione, ma la vicenda di Charlie e dei suoi genitori è complessa e non può essere liquidata con superficialità, in quanto vi sono conseguenze a livello concettuale, valoriale e legale molto pesanti. Proviamo a enucleare i nodi cruciali della vicenda, tentando di svelare alcune evidenti contraddizioni nelle decisioni rese dalle Corti inglese e, solo ieri, confermate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

   

Il fatto. Charlie Gard ha 10 mesi e soffre di una malattia ereditaria rara (c.d. encephalomyopathy mitochondrial DNA depletion syndrome). Questo significa che Charlie ha alcune malformazioni al cervello, non può muovere né braccia né gambe, e senza il supporto di un ventilatore meccanico non può, per ora, nutrirsi né respirare. La sua condizione – a detta dei medici dell’Ospedale Great Ormond Street – si è aggravata negli ultimi mesi. I genitori di Charlie hanno trovato un trattamento medico sperimentale negli Stati Uniti che potrebbe portare beneficio e migliorare le condizioni del bambino. Quello che i genitori chiedono all’ospedale è mantenere il trattamento di ventilazione artificiale a Charlie fin tanto che non riescano a trasferirlo, chiedendo altresì all’ospedale di concedere che il trattamento sia trasferito a un’altra équipe medica.

   

Ora, cosa c’entra qui un giudice? Perché c’è una sentenza? Per due ragioni, fra loro connesse, che sono state erroneamente e strumentalmente applicate al caso di specie. La prima: l’esistenza in Inghilterra di una legge che vieta l’accanimento terapeutico (da noi non c'è ancora, ma se passa il disegno di legge sul testamento biologico sarà lo stesso anche in Italia), che consiste nell’esecuzione di trattamenti di documentata inefficacia in relazione all’obiettivo, con un rischio elevato e/o una particolare gravosità per il paziente con un’ulteriore sofferenza, in cui l’eccezionalità dei mezzi adoperati risulti chiaramente sproporzionata agli obiettivi della condizione specifica. La seconda: la conseguente richiesta al giudice da parte dei medici dell’ospedale di dichiarare “pienamente lecito e nel miglior interesse di Charlie che si interrompa la ventilazione artificiale” dato che “le misure e i trattamenti finora adottati sono i più compatibili con la dignità di Charlie” e di dichiarare legittimo il rifiuto di consentire al trasferimento di Charlie per un nuovo trattamento sperimentale

   

In merito alla prima ragione, se di accanimento terapeutico si vuole parlare, i dati da dimostrare sono tanti: trattamento inefficace rispetto all’obiettivo, rischio elevato, particolare gravosità per il paziente, ulteriore sofferenza, eccezionalità dei mezzi adoperati… Fra l’altro, bisognerebbe innanzitutto dimostrare come un trattamento che consente la vita (“life support”, lo troverete scritto in tutti i giornali di questi giorni) possa di per sé costituire una forma di “accanimento”; ma questa è solo uno degli infiniti elementi lasciati indimostrati o unilateralmente considerati dalla sentenza del giudice Francis (confermata anche in appello). E’ vero: Charlie ha una progressiva immobilità muscolare, ma aumenta di peso e, dicono i genitori, riconosce le persone, prova piacere, usa la bocca e gli occhi per fare capire loro cosa gli piace e cosa no. Senza quel ventilatore Charlie non respira. Dove sta l’accanimento? Sia chiaro, nessuno sta mettendo in discussione la “doverosa” facoltà del paziente di rinunciare alle cure quando queste si sostanzino in pratiche di “accanimento terapeutico” (come d’altronde ammette la chiesa cattolica); quel che è grave e non tollerabile è che questo diventi una imposizione di legge, che consenta un’applicazione arbitraria e autoritaria, laddove non sia supportata da ragionevoli elementi, con cui si rischia di fare rientrare nell’accanimento terapeutico qualcosa che non lo è neppure lontanamente.

   

Sulla seconda ragione, non si può nascondere un certo stupore di fronte al fatto che la richiesta della interruzione della ventilazione non è partita dai genitori di Charlie, ma dai medici, i quali chiedono al giudice di pronunciarsi sulla legittimità del rifiuto di mantenere la ventilazione artificiale. Come affermato dal giudice, si tratta di un caso inusuale in quanto i genitori stanno semplicemente chiedendo all’ospedale il permesso di continuare il trattamento di ventilazione artificiale per mantenere vivo Charlie fin tanto che non riescano a organizzare il suo trasferimento per un trattamento alternativo che gli è stato prospettato negli Stati Uniti. Ma – e qui si tocca un vertice di non sense – l’ospedale si permette di entrare e di interferire (tanto per parlare di autodeterminazione e libertà del soggetto) anche con questa libera e autonoma iniziativa dei genitori volta a fare il tutto per tutto per dare a loro figlio una possibilità “che si merita”, e chiede al giudice di dichiarare che il trattamento alternativo che i genitori desiderano sperimentare non è nel “miglior interesse del fanciullo”!

   

In questo caso, aggiunge il giudice, la volontà dei genitori non assume nessuna rilevanza, né può essere d’aiuto al giudice nel risolvere la questione e nell’interpretare la legge nella direzione più naturale e ragionevole, ma rappresenta un ostacolo all’individuazione di quale sia “miglior interesse del fanciullo”, ed è su questo dato che si decide la questione. I genitori qui non possono aiutare, perché secondo l’art. 16.3 del Family Procedure Rules, nei casi in cui vi sia incertezza in merito a quale sia il miglior interesse del fanciullo, è meglio nominare un guardian quale rappresentante del fanciullo come parte del processo che lo riguarda, laddove il fanciullo non è in grado di esprimersi.

   

Per legge, quindi, si crea davvero una situazione processuale simile ad un “teatro dell’assurdo” in cui i protagonisti diventano tre: l’ospedale che si scaglia contro i genitori di Charlie, i genitori contro l’ospedale, e il guardian che, per difendere la volontà di Charlie, rivendica una presunta autonoma opinione di Charlie stesso contro quella dei suoi genitori. Così, grazie alle legge, si crea una opposizione e un contrasto che nella realtà non esiste: Charlie diventa una parte del processo e un potenziale nemico dei genitori, e i genitori un potenziale nemico di Charlie… sempre nel “suo migliore interesse”. Il giudice di primo grado apre il procedimento e nomina il cosiddetto guardian e, sulla base delle opinioni rese da quest’ultimo (appena nominato) e dai medici, ritiene che questa ipotesi di trattamento sperimentale (nucleoside treatment) abbia una percentuale di beneficio vicino allo zero e che non porti alcun cambiamento nella condizione di Charlie; in altre parole è futile (si veda la sentenza del giudice di primo grado).

 

Lascia perplessi pensare che i genitori siano meno adatti di un estraneo nel provare a voler bene al proprio figlio. Se i genitori non sono attendibili (e questa è affermazione grave e andrebbe sostenuta da una montagna di prove: per esempio che questi sono stati valutati da una perizia psichiatrica che li rende inadatti a essere genitori) nell’individuare quale sia il miglior interesse del proprio figlio, in base a cosa lo è il guardian? Infine, di fronte allo scenario appena descritto, il giudice tiene a premettere che a lui non spetta alcuna considerazione soggettiva, ma la sola posizione legale: ecco un nuovo “terribile” corto circuito. Il giudice, a cui spetta indagare solo la posizione legale, ritiene che un ulteriore trattamento sarebbe futile, giungendo a questa conclusione sulla base delle opinioni rese dai medici dell’ospedale inglese e dal guardian nominato dalla Corte a giudizio ormai instaurato. Su quali basi (se non puramente soggettive) e in base a quali competenze (davvero oggettive?) un giudice si discosta dalla volontà espressa dai genitori e dal parere dato dai medici statunitensi (sono anch’essi medici) affermando che nel miglior interesse del bambino il trattamento sperimentale è futile?

   

Chi riempie di contenuto questa inquietante nozione di “best interest”? Sembra che possa farlo un giudice estraneo alla vita di Charlie e dei suoi genitori perché presume che il nuovo trattamento lo faccia soffrire di più… Ecco, il cerchio si chiude. Si afferma che si tratta di accanimento terapeutico e, quindi, è senz’altro meglio togliere la vita che accettare che il trasferimento dia luogo ad una speranza di vita. Siamo davvero giunti a questo livello di assurdità, fatta di parole che non dicono nulla e di ragionamenti fatti a prescindere dall’evidente.

   

Questa inquietante sentenza afferma che il diritto alla vita è condizionato al criterio arbitrario, se non autoritario, di un giudice della sezione famiglia del Tribunale di Londra. Lui sì che può interferire e decidere “nel migliore interesse” sulla sofferenza che si prova (e su questo nessuno si è potuto autorevolmente pronunciare), sull’esito della scienza (considerando però più autorevole e competente l’opinione dell’Ospedale inglese e non il medico americano interpellato), sulla misura del bene che i genitori vogliono ai propri figli (perché è evidente a tutti che mantenere in vita il proprio figlio con tutti i sacrifici che comporta loro, senza neanche pretendere di gravare sulla spesa pubblica è da considerare “contrario al bene del fanciullo”) sulla vita di una persona, Charlie, che vive, e che per legge sarebbe opportuno “nel suo miglior interesse, permettergli di morire in pace e con dignità”.

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