“Nel paese del melodramma, dove la giustizia si amministra in nome non già del popolo italiano ma delle vittime”

Come si diventa il mostro

Guido Vitiello
Non essere colpevole, né un lupo solitario; essere “bello e impassibile”. Ecco i veri “crimini” che hanno fatto di Scattone l’assassino perfetto di stampa e giustizia.

Da grande voglio fare il mostro. Non un mostro qualunque, però, non lo spaventapasseri, lo yeti o il lupo mannaro. Voglio fare il mostro che si esibisce, o meglio è esibito, sotto i tendoni del circo mediatico-giudiziario. In fondo è un mestiere come un altro, non più stravagante di quelli passati in rassegna da Fantozzi mentre attraversa la città sul tetto del 102 nero delle collinari – batterista a Harlem, hippy nel Nepal, croupier a Casablanca… – e in tempi di crisi bisogna pur inventarsi qualcosa. Ma come si diventa mostri? Non c’è un curriculum di studi che introduca a questa carriera, non c’è una Monsters University dedicata ad allevare i futuri spaventatori, non ci sono neppure manuali per autodidatti. Una lacuna gravissima nel nostro sistema formativo. Per questo ho deciso di buttare giù qualche appunto. Si tratta di ricavare i rudimenti della disciplina dagli esempi forniti dalle cronache, e soprattutto dalle storie di chi ce l’ha fatta. Il più bravo di tutti, l’“eccellenza italiana”, quello che è riuscito a conservare una fama di mostruosità ormai quasi ventennale è lui: Giovanni Scattone, principe dei mostri. Quando il nuovo libro di Vittorio Pezzuto sul caso Marta Russo avrà finalmente un editore il mio breviario di teratogenesi non servirà più, e l’aspirante mostro troverà lì tutto l’occorrente per perfezionare la sua tecnica e il suo stile. Nell’attesa, cominciamo da dove sempre si comincia.

 

Dunque, c’era una volta… “Un criminale efferato!”, diranno subito i miei piccoli lettori. No, c’era una volta un innocente, anzi due, braccati una notte per un insieme di errori, di perizie incerte, di approssimazioni frettolose e di forzature dovute al troppo zelo (per dirla con il massimo dell’understatement salva-querele). Intendiamoci, nessuno vi vieta di commettere veramente un crimine; tuttavia ve lo sconsiglio. L’innocenza aiuta molto a tenere il contegno del mostro, perché se il colpevole è un lottatore che aspetta l’attacco, l’innocente è gettato tra i leoni senza alcuna preparazione, e questo rende lo spettacolo più divertente per tutti. L’importante è avere il senso del tempo, acciuffare quello che i greci (grandi esperti di mostri) chiamavano il “kairos”, l’istante propizio. Perché se è vero che il mostro è un impiego a tempo indeterminato, ben più stabile di quello che Scattone ha rifiutato a furor di gazzette, un lavoro dove non esiste neppure il modulo per richiedere la pensione anticipata, è altrettanto vero che mostri si diventa in poche settimane, addirittura in pochi giorni. Di fatto, la teratogenesi si compie per intero in quel crudele apprendistato che chiamiamo “indagini preliminari”; dove “preliminari” è da intendersi in senso molto diverso da quello erotico, perché in campo giudiziario indica esattamente la fase in cui (per restare tra i mostri greci) un’intera compagine di magistrati, giornalisti e spettatori comuni, trasformata come Zeus in un possente toro bianco, tenta di deflorare da tergo la principessa Europa, che sarebbe l’indagato. Da quei primi approcci alquanto indelicati non ci si rimette più. Volete una piccola dimostrazione? Mercoledì scorso Massimo Gramellini, che in teoria non sarebbe pagato per rilanciare balle vecchie di diciott’anni, ha descritto Scattone come il filosofo che “abbatte a sangue freddo la studentessa Marta Russo per il puro gusto di sperimentare il delitto perfetto”, tesi così farlocca che non resse neppure al vaglio del primo grado di giudizio. Come vedete, il grosso si svolge nel preambolo, ed è bene arrivare preparati al primo incontro con le belve e i domatori.

 

E allora, se non serve aver commesso un delitto, anzi se è perfino meglio non averlo commesso, qual è il primo requisito? “Per diventare mostri, lo dice la parola, bisogna essere molto brutti!”, suggerirà qualcuno. Neppure questo è vero, ma la faccia è importante. Anzi, la faccia costituisce reato. La battuta non è mia, è di Diego Calcagno, che la scrisse a metà degli anni Cinquanta nella sua rubrica i Mosconi, sul Tempo. L’occasione era la condanna di tale Otello Truzzolini detto “er zingone”, accusato di aver ucciso due anziane prostitute. Il povero Truzzolini aveva avuto l’imprudenza di lanciare quest’ultimo appello ai suoi giudici prima che si ritirassero in camera di consiglio: “Sono innocente, guardatemi in faccia!”. E quelli, per sua disgrazia, lo guardarono. Truzzolini (così lo descrisse un avvocato) “era deturpato da una paresi facciale che gli torceva la bocca, sì che essa rimaneva aperta tutta in un angolo, come se in quel punto egli avesse ricevuto la cornata d’un toro”. E chi poteva assolvere il fantasma dell’Opera? Ma sono storie di mezzo secolo fa, ormai siamo vaccinati da questo lombrosianesimo dozzinale, abbiamo perfino imparato a tifare per i brutti e i cattivi nei film hollywoodiani. No, il mostro oggi ha da essere bello, o almeno più bello della tricoteuse media. Nessuno si sente in colpa a odiare chi è privilegiato dalla natura, ingiusta per definizione. Le donne si ispirino dunque al look di Amanda Knox, gli uomini prendano a modello i due bellimbusti della Sapienza.

 

E tuttavia la bellezza non basta. Bisogna essere, per parafrasare la nota canzone, “bello e impassibile”. Questo perché la nostra vecchia cara cultura inquisitoria non riesce ancora a congedarsi dall’idea che la colpa debba essere estratta con le tenaglie dalla persona dell’imputato più che dalle prove materiali, dalle testimonianze e dalla logica, tutte cose che oltretutto richiedono studio e fatica, e in Italia fa troppo caldo. Ma anche qui c’è un’importante inversione di cui tener conto. Ecco come l’avvocato Titta Mazzuca, nell’“Anatomia dell’errore giudiziario”, descriveva le antiche ordalie: “Dio darà all’innocente la forza di sopportare qualsiasi dolore. E l’innocente camminerà sorridente sui carboni accesi, con le narici dilatate dall’odore delle carni che bruciano. Invece il colpevole mostrerà un viso stranamente contratto!”. Oggi le cose non vanno più così. Guai se il mostro principiante – specie durante lo stage delle indagini preliminari – contraesse il viso, o peggio, si facesse scendere una lacrima! No, occorre essere gelidi. Perché tu, da novellino, pensi che il punto sia stabilire se sei colpevole o innocente, mentre quelli si stanno chiedendo piuttosto se sei umano o diabolico. Se sei posseduto, non farai una piega nemmeno quando ti infilano un ago gigante nel midollo, come la bambina dell’“Esorcista”. E nel paese del melodramma, dove la giustizia si amministra in nome non già del popolo italiano ma delle vittime, e dove circola ancora la curiosa superstizione secondo cui le lacrime – la cosa più simulabile del mondo – sono il sigillo dell’autenticità, piangere mette a repentaglio lo status di mostro, e può rovinarvi la carriera appena avviata. Ricordate i giornali che riportavano con stupore le lacrime di Amanda Knox dopo la sentenza? Come a dire: allora non era una strega! A rigore, una ragazza che piange dopo essere incappata nel flagello della giustizia più disastrata dell’occidente non dovrebbe fare notizia, ma se è una serva di Satana si usano parametri diversi. Scattone – sarà per via di quegli occhi di ghiaccio, come quelli del marconista del Titanic di De Gregori – in questo è stato molto più bravo. Andate a rivedere come lo pungolavano gli “esperti” convocati a “Porta a Porta” dopo la prima condanna. Una congrega di dottori al capezzale di Pinocchio. E facevano di tutto per estorcergli una lacrimetta, la stessa lacrimetta che valse la salvezza dell’anima a Buonconte, ma lui niente. La sua unica debolezza fu scrivere una lettera al Messaggero nel febbraio 2001 in cui giustificava la sua stessa faccia, spiegando che “i miei occhi, grigi o verdi che siano, li ho ripresi da mia madre, che era una donna generosa e dolcissima”. Ma per fortuna nessuno si intenerì e la sua carriera mostruosa poté proseguire verso nuovi traguardi.

 

Un altro fraintendimento molto comune, antico almeno quanto Jack lo squartatore, vuole che il mostro sia un lupo solitario, un eremita del demonio, uno che sbuca dai vicoli e non si sa neppure in quale sordida stanzaccia vada a rintanarsi la notte. Sono scorie romantiche di cui liberarsi, nebbie da lasciare tra i lampioni a gas della vecchia Londra. Oggi è preferibile che il mostro sia affiliato a una corporazione, o se piace a una casta. Nulla alletta più il pubblico e i cronisti (ma pure i magistrati, altroché) dell’immaginare, con un misto di fascinazione e di invidia, gli arcani rituali che si svolgono in qualche Olimpo di privilegiati. Sbirciare nelle isole private dei divi, nelle navi da crociera dei banchieri, nei fantomatici salotti degli intellettuali… Scattone ebbe l’accortezza di non presentarsi come mostro freelance, ma come membro della Confraternita della Filosofia del Diritto, una sorta di Bilderberg dove, dietro un muro di impenetrabile omertà, si passava il tempo a sedurre serialmente studentesse, a sparare a casaccio dalle finestre per dimostrare tesi filosofiche e dove addirittura – scrissero allibiti i cronisti – si svolgevano esami senza regolari commissioni composte da tre docenti. Praticamente Gomorra.

 

A questo punto, se avete tutti i requisiti in regola per presentarvi al casting, vi manca solo un buon plot. Attenzione, però, perché questo è un elemento imprescindibile. I casi che funzionano meglio nel circo mediatico-giudiziario sono quelli che s’innestano, con qualche piccola variazione, su un canovaccio familiare, diciamo pure su un archetipo narrativo consacrato dai secoli: la strega forestiera che porta il contagio nella placida e sonnecchiante cittadina universitaria, la perenne Medea che fa a pezzi i figli, l’orco che attira le vergini nei sotterranei della sua villa e le sottopone a riti cruenti come la lap-dance. Il popolo vuole romanzi d’appendice. Anche sotto questo aspetto, con un po’ di fortuna – e potendo contare su un reparto sceneggiatura dei giornali che dai tempi del caso Tortora si è molto perfezionato – Scattone e Ferraro sono stati i più bravi. Anzitutto potevano contare sul modello sperimentato della “coppia criminale” alla Scipio Sighele. E le prime ricostruzioni del caso erano una manna dal cielo per quella cassa integrazione di scrittori falliti a cui così spesso si riduce il giornalismo italiano. Che noia, che mestiere servile quello del cronista incatenato ai fatti. E allora, quale occasione migliore per compiacere la vanità letteraria sfoggiando le proprie buone letture e la propria cattiva prosa? C’era tutto, nel caso Scattone: “Delitto e castigo” di Dostoevskij, per i più pigri, e “Nodo alla gola” di Hitchcock, con i due studenti che strangolano l’amico. I più raffinati potevano citare “I sotterranei del Vaticano” di Gide, l’“Erostrato” di Sartre, il “Fantasma della libertà” di Buñuel, “Frenesia del delitto” di Fleischer. E poi un ripescaggio forsennato degli appunti di filosofia per la maturità: fu una Nietzsche-renaissance giornalistica in cui gli storici della filosofia del futuro potranno datare il passaggio dal pensiero debole al pensiero spappolato. La pista superomistica non resse, per quanto uno dei due pm si ostinasse a infilarla nella requisitoria, ma neppure questa défaillance ha danneggiato la carriera mostruosa di Scattone. D’altronde i processi passano, le sentenze si dimenticano, ma un’indagine preliminare è per sempre. E il principe dei mostri, lo si è visto in questi giorni, gode ancora di tutti i privilegi della sua condizione. Non vorreste diventare come lui?

 

[**Video_box_2**]Dunque, facciamo un breve ripasso di fine lezione: dovete essere bellocci, impassibili, membri di una corporazione guardata con sospetto, e protagonisti di una buona sceneggiatura con cui le platee abbiano già familiarità. Il vostro compito si ferma qui: leoni, domatori e pubblico faranno il resto. Questo ovviamente se siete ambiziosi e tenaci, perché – vi avverto – si tratta comunque di una carriera fatta di ostacoli, di sacrifici e di severa autodisciplina. Se vi accontentate di essere mostri più scadenti, diciamo pure mostri di squallore, il mio breviario non serve. Limitatevi a mandare a memoria queste parole di Gianni Barbacetto sulla prima pagina del Fatto Quotidiano di ieri, e ripetetele ad alta voce: “Ha senso che un pedofilo torni a insegnare (se, come Scattone, sollevato dalla pena accessoria dell’interdizione)? L’incerta giustizia degli uomini irrora (sic) pene e fa tornare i condannati nella società. Ma non impone il ritorno nello stesso posto. Hannibal the Cannibal, a fine pena, può dirigere una mensa scolastica?”.

 

Poi, se avete il coraggio, guardatevi allo specchio.

Di più su questi argomenti: