(foto di Joshua Kettle su Unsplash)

Una fogliata di libri - lettera da un tetto

Roma dall'alto, alle 8 del mattino. Sembra quasi Milano

Marina Corradi

Come si sta d’incanto sotto a questo gran cielo. Mi pare anche di avvertire il fruscio pigro del Tevere, in fondo alla via. Così lontano invece è il traffico, e il rumore. Vicino, il Cupolone. Anche lui enigmatico: eterno, mentre il tempo scorre. Corre, va e ritorna, e si riproduce

Roma, Lunedì di Pasqua, le otto del mattino. Su questo tetto di un condominio di Prati un cielo pallido, traversato dai gabbiani. Sono strani i gabbiani, volano così alti ma fanno versi di gatti, o di neonati: che nel dormiveglia ancora mi fanno sussultare. Questo cielo è indicibile, in un gran vento da est. Che silenzio, rotto solo a tratti dal discreto deglutire dell’ascensore, e dal cigolare degli omini di ferro sopra ai camini. Arrugginiti, decrepiti, girano ancora nel vento, piano. Quando si voltano mi pare che mi guardino; e allora è esattamente come quando, bambina, a Milano seguivo mia madre che andava a stendere il bucato in terrazzo. Era ancora più alto quel tetto, undicesimo piano: guardavo giù con vertigine, tenendomi forte alle sbarre.

 

Il cielo di Milano era fermo e grigio. Dietro le facciate dei palazzi di piazza Repubblica gli interni erano neri di carbone, e i balconcini affollati di scope e stracci sporchi: pareva la realtà, dietro i palazzi perbene. Sotto, come una voragine, i cortili di cemento. Guardavo alla schiera di antenne ritte a catturare le voci dei televisori. E alle lenzuola, bianche, larghe, che sventolavano debolmente. E c’era un omino del vento, il più grande, in cima a un casotto, che si voltava sempre a guardarmi. Come questi oggi a Roma, tanto tempo dopo.

Ma come si sta d’incanto sotto a questo gran cielo. Mi pare anche di avvertire il fruscio pigro del Tevere, in fondo alla via. Così lontano invece è il traffico, e il rumore. Vicino, il Cupolone. Anche lui enigmatico: eterno, mentre il tempo scorre. Corre, va e ritorna, e si riproduce. Il pianto di un bambino da una finestra qui sotto, il suo “mamma!”, assolutamente uguale. (Forse non dovrei avere tanta paura del tempo? Forse porta via e poi, altrove, restituisce?). Poter restare qui a guardare il cielo che da cenere si fa azzurro – come dev’essere, a Roma, di aprile. Felici tetti di Roma, chissà perché ignorati dai romani, che si affollano vocianti giù per le strade. Quassù vento, stridii di gabbiani, una cornacchia. Lontane, alle nove, campane.