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Siti vs Pasolini, un combattimento durato ben quindici riprese

Matteo Marchesini

È in libreria il volume Rizzoli che raccoglie cinquant’anni di studi dello scrittore premio Strega su P.P.P., un'oscillazione continua tra l’analisi psicanalitica e quella stilistica. Con colpo di scena

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Al volume Rizzoli che raccoglie cinquant’anni di suoi studi su Pasolini, Walter Siti ha dato il titolo pugilistico di “Quindici riprese”. Quello con P.P.P., ci spiega subito, è stato per lui un lungo combattimento. Ma la metafora agonistica si presta a definire l’intera opera sitiana. Qui come nei romanzi, e come negli altri saggi, l’autore è costantemente impegnato in un corpo a corpo con la realtà che rappresenta: non le lascia tregua, né la lascia al lettore. Siti evita i passaggi rilassati, l’amabile conversazione critica. Satura e increspa la pagina con la sua intelligenza verticale e tesa, con i suoi aforismi densi e brillanti: vuole espugnare, vincere, abbattere il catalizzatore del suo amore e del suo odio.

 

È come se si sentisse sempre escluso dalla Realtà, in tutte le sue forme, e la considerasse quindi un assoluto da raggiungere e annientare, un oggetto che vorrebbe afferrare avidamente ma che perennemente sfugge alla presa. In questo Siti, così diverso da Pasolini, è pasoliniano. La sua prosa critico-saggistica, non troppo diversa dalla prosa narrativa, ci offre uno spettacolo in Italia quasi inedito: quello di uno studioso il quale, dopo aver imparato a usare i più affilati bisturi teorici, se ne serve non con il distacco accademico che sembrano esigere, ma con la furia di chi cura e ferisce corpi (testuali) a cui vanno i suoi sentimenti più forti e contrastanti.

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“Quindici riprese” oscilla tra l’analisi psicanalitica e quella stilistica, tra le definizioni che catturano l’etimo psichico-estetico di Pasolini e gli zoom sulla metrica. Uno dei leitmotiv riguarda la natura catafratta dello scrittore, ovvero la sua impossibilità di uscire da sé, malgrado le continue scorribande tra i generi e le periferie del pianeta: ogni paesaggio, ogni esperimento formale sono in lui appiattiti dalla stessa visione erotica, o allontanati con lo stesso gesto di rifiuto.

 

Pasolini non esce da sé perché non vuole oggettivarsi, cioè in fondo accettare la sua parte borghese – che considera impoetica – e perdere una virtuale onnipotenza. Qui sta il massimo punto di distanza con Walter, che a differenza di Pier Paolo, costitutivamente poeta, è divenuto un vero romanziere appunto perché si oggettiva, e non crede a una propria immagine onnipotente. Tra gli anni 60 e 70 la chiusura narcisistica, e insieme la velleità di raggiungere senza mediazioni una realtà in rapido mutamento, portano Pasolini a concepire il testo scritto come un appunto non finito da integrare con la vita dell’autore.

 

Siti parla di rovescio dell’estetismo. L’arte non basta più, la sua bellezza appare “come un difetto di vita”, e allora il corpo si getta nella lotta: l’artista pretende di autenticare con la sua figura pubblica un’opera che si sfalda. Ma nel suo sfaldamento sta anche la sua attualità: è più credibile il Pasolini che accetta come suo genere l’abbozzo rispetto al Pasolini trentenne, ultimo rappresentante delle belle lettere.

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Segnaliamo infine un colpo di scena. Il libro ospita la postfazione alla nuova edizione di “Petrolio”, che Siti ritiene ora legato alla morte dello scrittore. Forse gli assassini hanno “creduto davvero che uno dei più ascoltati intellettuali italiani” avrebbe scritto in un romanzo “che l’assassinio di Mattei era stato voluto e organizzato da Cefis, con il supporto della mafia siciliana”. E se è così, “Che ne potevano sapere, i mafiosi, dei complessi piani di lettura”? Come potevano immaginare che probabilmente Pasolini avrebbe pubblicato un testo difficile, ermetico, “destinato a una lettura elitaria”? Terribile a dirsi, “ma ‘Petrolio’ è costato la vita al proprio autore per un maledetto intreccio di indiscrezioni, ignoranza e malinteso”. Forse il potere italiano – con la sua tetra, beffarda ottusità - ha ritorto contro Pasolini il suo scambio equivoco tra letteratura e vita.

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