Elaborazione grafica Enrico Cicchetti

una fogliata di libri

Quando finiscono le parole. L'illusione di poter scrivere tutto

Marco Archetti

Un viaggio in metro ti fa sentire vivo. E pazienza se la nostra personale letteratura resterà miserabile

Tardo pomeriggio di novembre e tu sei lì che viaggi a bordo della Metro tra facce verdi, verdastra anche l’aria nella carrozza. Ed ecco che, emergendo da sottoterra, il solito tratto sopraelevato a tre fermate dal capolinea ti spedisce in un mondo vivo, opposto, e in un attimo ti trovi trafitto da una sciabolata di luce arancione, un arancione screziato di riflessi albicocca e caldi barbagli corallo. Tra un lampo e l’altro di questo imprevisto assalto glorioso, di quest’insperata grazia in movimento, in bianca carrelata ti sfilano davanti le case del quartiere Sanpolino, quartiere volonteroso ma non proprio da cartolina, coi suoi edifici, i suoi calcestruzzi, le case a schiera e le case a torre, i tetti piani e i brise-soleil di legno. Poi il campo di atletica Gabre Gabric, nuovo, appena inaugurato: sfavilla il rosso pompeiano della pista di atletica mentre, lontane, tre sagome controsole, scure, corrono affiancate e sembrano lentissime.

Qui vicino, più verso di te che sei già quasi altrove ma ancora persisti in un frammento di fuga, una ragazza coi capelli legati che corre sul finire di uno scatto: rallenta, si ferma, e stanca si piega sulle ginocchia a riprendere fiato. Vorresti guardarla ma sei già altrove, e una massicciata bianca cancella quel mondo raggiante. Bianco, bianco, bianco, ma non fai che dirti: tutta questa bellezza dove nemmeno te l’aspettavi, la vedi, l’hai vista? E adesso dimmi, saputello, dimmi che te ne fai dei colossei, dei duomidimilano, a che servono le tureiffèl quando tutto è nascosto ovunque, quando ovunque c’è tutto quel che serve e la vita è lì, e parla ovunque la stessa lingua sfolgorante. Momenti in cui la vita sembra stare tutta dove deve stare, cioè dove è sempre stata. Momenti in cui ogni cosa è al suo posto e tu con la vita. Momenti in cui è così bello stare al mondo, in cui è così inverosimile e promettente – di una promessa già incredibilmente mantenuta – godersi questa fuggevole permanenza nella luce, che gli occhi li vorresti chiudere, ma poi li tieni aperti anche se è come sciupare tutto, perché arrivano le massicciate.

Ma il punto è che se anche tutto finisse adesso – ti dici – è stato comunque bellissimo, e in tutto c’è stata bellezza: bellissimo questo frammento biografico, bellissimo avere avuto una figlia, una donna, e aver avuto te stesso, i quartetti di Haydn e quel po’ di letteratura indimenticabile. Tutto è stato così ricco che ti rendi conto di quanto sei povero, e di quante cose non sei riuscito a far entrare nella tua, di scrittura, che è miserabile e miserabile resterà, in confronto a questa scheggia di purezza essenziale. In tutta la tua scrittura (sì, certo, quella che chiami letteratura e che è la tua, ma non ti vergogni? letteratura è sempre quella degli altri), in tutta la tua scrittura non hai mai provato a mettere in parole un momento così, perché da sempre sospetti non sia possibile che, nelle parole, entri tutto quello che non passa dalla testa, quando la ragione si arrende e il resto tracima, quando le parole cedono spazio e se lo prende la musica. E dai ragione a Herzog, cioè a Saul Bellow, che ci ha scritto un romanzo sul poco a cui servono le parole, salvando te dal non saperlo scrivere. Tu quel romanzo non lo scriverai, ma un giorno qualunque del tuo calendario qualunque viaggerai su una carrozza di metropolitana qualunque, e di colpo sentirai la vita, forte più delle parole, forte più della letteratura. Quel giorno, per un solo momento, non conoscerai rimpianto.

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