Elaborazione grafica di Enrico Cicchetti 

una fogliata di libri

Il ritorno circolare ed eterno di qualunque cosa venga creata

Giulia Ciarapica

“Per spiegare la verità del vivere, Paola Masino parte dalle donne” 

Dietro i fili di pensieri che m’incrinavano il sonno, giungevo, chissà dove, a stupefatti sogni per cui con ali grandi e linguaggi variamente armoniosi superavo e penetravo i limiti della natura e delle cose”. È raro che si trovi una dichiarazione di poetica così chiara, scritta a caratteri cubitali quasi a mettere il lettore in ambasce, tanto più se si tratta di una raccolta di racconti legati a livello tematico e variegati nella narrazione: Paola Masino lo fa con uno squisito intento filosofico, senza venir meno alla promessa che i testi di “Racconto grosso e altri” (tornati in libreria con Rina Edizioni dopo ottant’anni dalla prima pubblicazione, prefazione di Marinella Mascia Galateria) suggeriscono a chi li legge: grazia, vividezza dell’assurdo, genio orrorifico.

Dieci racconti composti in pieno periodo fascista che ci dicono molto sul verbo “esistere”, nel significato letterale di “essere nella realtà, far parte delle cose”; capita spesso che per spiegare la verità del vivere Masino parta dalle donne, dalla natura di madri e imperatrici che scelgono, trattenendolo, il mistero di vita e morte, quell’Uno di cui facciamo parte senza rendercene conto.

È quel che succede in “Terremoto”, primo racconto in cui assistiamo a un accenno di realtà: “Nell’accanito strapparsi dalla terra pareva che il mondo volesse divellersi dall’atmosfera quale un figlio maturo dal grembo materno” scrive Masino, e per magia sopraggiunge nel lettore il miracolo di un’acerba eppure epifanica certezza: la radice della perdita, qui sottoforma di distruzione materiale, è già corpo unico col soffio vitale, dal momento che è la donna a dare sostanza alla possibilità dell’essere nelle cose, col resto del mondo.

Certo, non è così semplice. Non può esaurirsi in un modello già sperimentato il pensiero di una scrittrice tra le più provocatorie del Novecento. “Morte era quel senso viscido” scrive poco dopo “alla morte non si pensa o si pensa come a una soluzione miracolosa di stabilità”, e poi, subito nel racconto successivo, “Viaggio con panorami”, “ma morire e nascere non sono una medesima cosa?”. Condensato in poche frasi, colte come sternuti in mezzo alle pagine, il senso globale: oltrepassare i limiti della natura vuol dire accettare che il pensiero della morte sia inutile perché coincide con la vita, e non c’è capo né coda ma solo un grande Zero, un unicum nel quale vivi e morti si danno manforte sorreggendosi l’un l’altro.

È così semplice e difficilissimo immaginare il corpo come “tomba momentanea”: tutto è morte e vita insieme, tutti sono tutto senza soluzione di continuità. Masino lo esplicita anche nel racconto “Figlio” – che assieme a “Latte” è il più struggente della raccolta: il ventre che è già una bara, il tradimento di una madre che uccide il figlio negandogli la possibilità di venire alla luce, e poi il rimasuglio, l’idea di quella stessa vita che non si consuma ma si rimpicciolisce in un non-luogo fuori dal Tempo, da cui è destinata a saltare fuori in un futuro prossimo, finalmente trasformata nell’esempio rigoglioso che la morte è una bugia (anche Bontempelli, compagno di Masino, in “Gente nel tempo” scriveva: “Io non posso aver paura della morte, perché non c’è in me niente di vivo”). Penetrare i limiti e le cose forse vuol dire proprio questo, per Masino: accettare che nulla abbia dei limiti, in un ritorno circolare ed eterno di qualsiasi cosa venga creata.

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