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Una fogliata di libri

Stelio Mattioni, il triestino fin troppo dimenticato

A cento anni dalla nascita, la casa editrice Cliquot ripropone “Il richiamo di Alma”

Giulia Ciarapica

Genio dell’oltremondo, investigatore della spiritualità non religiosa, scrittore della vita moderna, genuflessa alla logica della consequenzialità nella quale d’improvviso irrompe l’eterno, l’inatteso, l’indeterminato: “misterioso sul serio” lo definì Calvino

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Qualche tempo fa ho azzardato un sondaggio, fissata come sono con gli scrittori dimenticati, chiedendo ai lettori quale fosse lo scrittore che consideravano più sottovalutato, per non dire caduto nell’oblio, del Novecento italiano. Hanno nominato Cassola, Morselli, Deledda, Masino. Giusto, sì. Ma nessuno – e dico nessuno – che abbia preso in considerazione quel triestino d’impronta svevian-kafkiana che fu Stelio Mattioni, un genio dell’oltremondo, investigatore della spiritualità non religiosa, scrittore della vita moderna, genuflessa alla logica della consequenzialità nella quale d’improvviso irrompe l’eterno, l’inatteso, l’indeterminato: “misterioso sul serio” lo definì Calvino.

 

A cento anni dalla nascita, la casa editrice Cliquot ripropone “Il richiamo di Alma” (uscito per la prima volta nel 1980 presso Adelphi, arrivato in finale al Premio Campiello per la seconda volta dopo “Il re ne comanda una” del 1968), uno dei romanzi di Mattioni forse più ricchi di simboli, circondato da quell’atmosfera tipica della Trieste che ci presenta ogni volta: sospesa “tra sogno e realtà” come scrive Gianfranco Franchi. Perché occorre dire subito una cosa: Mattioni è parte attiva di Trieste, ne diviene la voce sottotraccia, l’occhio affilato, è osservatore instancabile della Città, quella Città che non fa mai da sfondo alle storie ma ne è complice, attraversandole e lasciandosi attraversare. Eppure non è mica Trieste il punto d’avvio delle circonvoluzioni visionarie, no; ogni sconvolgimento del reale ha origine dal Sé, da una forza motrice che si trova nell’Individuo ma che l’uomo non riconosce, di primo acchito, come parte sua propria. Esattamente come accade al protagonista senza nome del Richiamo di Alma, che pensa di trovare la strada fuori da sé, ma in realtà non fa altro che distrarsi dall’obiettivo: “stavo cercando fuori di me, invece di concentrarmi”, dice.

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Il giovanotto, che all’epoca dei fatti è uno studente universitario di ricca famiglia (dove la “ricca famiglia” è il principale elemento di rimando al mondo tangibile, l’unico possibile per chi crede che “la verità coincide con l’opinione personale, quando questa si è affermata su quella degli altri”), al momento della narrazione non è che un padre e marito che “avrebbe dovuto cercare di realizzarsi meglio, in un’attività meno anonima, ma così non è stato e in fondo questo non ha importanza”. Solo il ricordo, quindi il racconto di quel che gli è successo molti anni prima, lo rende ancora vivo e sollecito, seppur in parte. Potrebbe trattarsi di un personaggio sveviano (dopotutto, la tradizione letteraria è quella), ma l’invocazione dell’Altrove è fin troppo forte, e si entra a gamba tesa nell’azione con uno scenario che ricorderebbe invece quello recanatese di Leopardi, se non sapessimo già di essere a Trieste: il Nostro si trova nel giardino della zia Francesca – l’outsider di famiglia –, o per meglio dire in quella “parte del giardino, da cui, se non si cercava di farlo, non si vedeva niente, si udiva la città, ma come da dietro un muro”, che è un po’ come dire “quest’ermo colle, / e questa siepe, che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”. Ebbene, è da lì che lo studente scorge per la prima volta Alma, la ragazza senza fissa dimora nell’aspetto e nell’atteggiamento, di mutevole fattezza, che gli si presenterà molte altre volte, in sogno così come per le vie di Trieste, ogni volta nelle sembianze di una fanciulla diversa, riconoscibile solo per via dell’anello con la pietra.

  

Ma Alma, l’impalpabile Alma, irraggiungibile e per lo più silente, non è che la prospettiva del mondo oltre il confine del reale, è la linea di demarcazione, la tentazione a scoprire quello che la vita terrena, visibile a tutti, non può offrire: il Di Più. Non si tratta di un richiamo mistico o religioso – almeno, non solo – ma più profondamente spirituale, come se Alma (l’anima, appunto) rappresentasse la coscienza dell’andare al di là, la presa d’atto che la cosa fondamentale riguardo la vita è il viverla, ma è anche immaginare quel che non basta alla vita stessa: la dimensione parallela del possibile. In questo senso, Mattioni è lo scrittore delle Intenzioni, lancia le sue biglie in un gioco che diventa labirinto – per nulla divertente – pieno di segni e cerchi, mentre profila con la penna parole concentriche, vorticose, e più le si percorre più ci si ritrova al punto di partenza: rassegnarsi al Qui e Ora pur consapevoli del Dopo, della sua esistenza. Solo questo ci è dato conoscere.

 

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