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L’insondabile grandiosità di Raymond Carver

Daniele Mencarelli

L'identità di un'intera epoca e della cultura stelle e strisce del secondo Novecento rappresentata da un solo autore, che è diventato ciò che ha sempre desiderato grazie al suo editor Gordon Lish

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Ci sono autori chiamati dal destino a diventare emblemi, non solo per la loro produzione, ma perché la loro parabola a questo mondo, spesso involontariamente, diviene identità stessa di un’intera epoca. Se pensiamo alla letteratura americana del secondo Novecento, intesa come miglior riflesso di tutta la cultura stelle e strisce di quel periodo, questo identikit corrisponde a un autore su tutti. Raymond Carver.

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Ci sono autori chiamati dal destino a diventare emblemi, non solo per la loro produzione, ma perché la loro parabola a questo mondo, spesso involontariamente, diviene identità stessa di un’intera epoca. Se pensiamo alla letteratura americana del secondo Novecento, intesa come miglior riflesso di tutta la cultura stelle e strisce di quel periodo, questo identikit corrisponde a un autore su tutti. Raymond Carver.

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Una vita paradigmatica, a partire dalla sua traiettoria sociale ascendente. Raymond apparteneva a una famiglia di lavoratori, il padre lavorava in una segheria e la madre era una cameriera, alle prese costantemente con problemi economici, problemi che costarono diversi traslochi oltre alla stabilità mentale del padre. Il giovane Carver vide nella scrittura la sua realizzazione artistica, certo, ma anche una leva in grado di sollevarlo dalla sua condizione. In tal senso, come non rintracciare in questa sua aspirazione quella di intere generazioni che vissero gli anni del boom economico, dell’American dream, dell’ascensore sociale. Furono anni di grande espansione, anni che permisero concretamente la realizzazione di tanti sogni e progetti. Raymond a riguardo è semplicemente esemplare, è la sintesi di quello che può fare una società che permette anche ai meno abbienti di inseguire il loro talento. Ma il buon Ray è interprete anche del rovescio oscuro, equivoco, del sogno americano. Offre il destro ai tanti che individuano in quel periodo storico la fine della purezza, dei popoli e delle arti.

 

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Occorreva vendere l’anima al dio commercio per arrivare in vetta, vendersi, corrompersi. Entra in scena Gordon Lish. È il 1971. Carver sino a quell’anno ha scritto soprattutto poesia, ha pubblicato libri, ma il successo che lui ha in mente è un’altra cosa. È diventato alcolizzato, anche per la continua tensione legata alla sua indigenza economica. Non riesce a sostenere la sua famiglia, malgrado i tanti lavori e i tanti traslochi. Chi è Gordon Lish? È il diavolo invocato dal Carver-Faust? L’anima più nera dell’editoria commerciale americana di quegli anni? Oppure è un salvatore? Quello che ha permesso al nostro di affrancarsi finalmente dalla povertà, quindi dall’alcolismo, donandogli la fama che meritava? Ai fatti della storia, Gordon Lish era il fiction editor della rivista Esquire. Fu lui, nel ’71 appunto, a pubblicare sulla sua rivista un racconto di Raymond. Da qui comincia il secondo atto della drammaturgia carveriana. Perché il poeta e narratore Raymond Carver grazie all’editor Gordon Lish diventa quello che desiderava da sempre. Uno scrittore di fama, candidato ai premi maggiori, invitato a insegnare nelle università. Ma a che prezzo? Perché Lish è un editor con una visione precisa, autoritario, capace di tagliare, revisione dopo revisione, sino al cinquanta per cento di ogni scritto della sua creatura.

 

Perché Carver per lui è questo: lo dice in giro, lo afferma apertamente. Senza di lui sarebbe un sentimentale, uno scrittore appena decente. E Carver? Lo lascia fare. In fondo gli è grato. Gli ha aperto le porte del benessere e del successo. Sarà l’ingresso in scena di un terzo attore, Tess Gallagher, poetessa che diventerà la compagna di Raymond sino alla morte, ad avere un ruolo centrale nella frattura, via via più netta, tra l’editor e lo scrittore. Ray veniva da un precedente matrimonio, naufragato negli anni dell’alcolismo. Anche rispetto a questa vicenda, Carver è a tutti gli effetti un precursore, un apripista. Sulla sua pelle si giocherà un conflitto che diventerà dilagante da lì in avanti, quello tra l’autore, appunto, e la figura dell’editor, furiosamente dibattuto negli anni a venire, sino ai nostri giorni.

 

Da poco, per le Edizioni Ares è uscito “La scrittura di Raymond Carver” di Antonio Spadaro, un libro che riprende il lavoro che l’autore compie da oltre vent’anni sul grande scrittore statunitense. Oltre ai dati biografici salienti, alle relazioni centrali, alla cronologia straordinariamente ricca di dettagli, della lettura di Spadaro colpisce lo sguardo critico, e non meno innamorato, capace di cogliere nella sua essenza la poetica che anima tutta l’opera carveriana. Attraverso l’arena della realtà, sempre oggettivata, materica, in Carver è presente un senso di grandiosità insondabile, pienamente incarnata all’interno del livello più elementare e forse banale della vita. Spadaro, inoltre, indaga in quel meraviglioso intreccio tra poesia e narrativa che è senza ombra di dubbio la cifra unica di Carver, partendo da un assunto di fondo: è il verso il motore primo della sua opera, non solo in senso cronologico. Poesia alla quale ritorna ciclicamente.

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A proposito di poetica, stupisce come lungo tutto il Novecento, in luoghi e tempi diversi, molti autori siano giunti al medesimo risultato rispetto alla loro scrittura, imprescindibilmente legata all’arena della realtà, agita dall’altro, quale unico luogo di svelamento del proprio io. Realtà come luogo di mistero indicibile, celato nell’ordinario incedere dei nostri giorni, nella minuteria delle nostre vite. E Ray lo sapeva.

 

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