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Una fogliata di libri

Il filo rosso che unisce letteratura e follia

Daniele Mencarelli

Molte realtà editoriali sondano la relazione tra scrittura e malattia mentale. Tra queste, le Edizioni Alphabeta Verlag, che propongono l'"Archivio critico della salute mentale". Un contenitore di testimonianze, esperienze, narrazioni, che hanno per soggetto primo la malattia mentale. Intesa come condizione umana

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La letteratura affonda le sue radici nella natura umana, si muove spesso al suo limitare, in quella zona di confine dove le forze della nostra esistenza si lasciano osservare integralmente, alla massima potenza. Il confine del confine, la linea ultima di demarcazione tra l’agire e l’essere agiti, è la malattia mentale. La follia. Vicina di casa della letteratura. Da sempre. Gli esempi sono giganteschi, intramontabili. Solo a fermarsi a quelli conclamati, pubblici. Ma il demone della nevrosi abita dentro il privato, più o meno segreto, di una quantità sterminata di scrittori. Non basterebbe il giornale per citarli tutti. Va immediatamente sgombrato il campo da un equivoco vecchio quanto la letteratura stessa: la scrittura è la nevrosi. Ovviamente non è così. La malattia, di qualunque natura, può illuminare di consapevolezza alcuni percorsi, ma non potrà mai sostituire le vere forze scatenanti della produzione artistica. Lo stupore. L’amore e il suo rovescio. Il dolore. E il talento di saperli dire. La letteratura non è il corredo di un dato patologico, ma il canto dell’avventura umana. Anche quando intrisa di malattia.

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La letteratura affonda le sue radici nella natura umana, si muove spesso al suo limitare, in quella zona di confine dove le forze della nostra esistenza si lasciano osservare integralmente, alla massima potenza. Il confine del confine, la linea ultima di demarcazione tra l’agire e l’essere agiti, è la malattia mentale. La follia. Vicina di casa della letteratura. Da sempre. Gli esempi sono giganteschi, intramontabili. Solo a fermarsi a quelli conclamati, pubblici. Ma il demone della nevrosi abita dentro il privato, più o meno segreto, di una quantità sterminata di scrittori. Non basterebbe il giornale per citarli tutti. Va immediatamente sgombrato il campo da un equivoco vecchio quanto la letteratura stessa: la scrittura è la nevrosi. Ovviamente non è così. La malattia, di qualunque natura, può illuminare di consapevolezza alcuni percorsi, ma non potrà mai sostituire le vere forze scatenanti della produzione artistica. Lo stupore. L’amore e il suo rovescio. Il dolore. E il talento di saperli dire. La letteratura non è il corredo di un dato patologico, ma il canto dell’avventura umana. Anche quando intrisa di malattia.

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Partendo da un’angolazione specifica, tecnica, sono molte le realtà editoriali che sondano la relazione tra scrittura e malattia mentale. Perché se è indiscutibile che la pazzia non può essere confusa con il talento, è altrettanto innegabile che da quel bacino umano sono usciti artisti veri, scrittori maiuscoli, approdati a queste discipline attraverso percorsi diversi da quelli prestabili, oggi semplicemente obbligatori. Anche qui va sgombrato il campo da un possibile equivoco. Non si sta parlando di quella che a vario titolo viene definita scrittura terapeutica, quindi di quell’attività che il singolo individuo svolge in un ambito di cura, al di fuori della logica della letteratura in senso stretto. Queste realtà editoriali propongono libri veri, di scrittori altrettanto validi. Un’offerta assolutamente competitiva, in termini di qualità, con tante case editrici maggiori. Tra queste le Edizioni Alphabeta Verlag. Nata in Alto Adige, una ventina d’anni fa. Tra le diverse collane ne propone una, la 180, Archivio critico della salute mentale. Un contenitore di testimonianze, esperienze, narrazioni, che hanno per soggetto primo la malattia mentale. Intesa come condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come la ragione.

 

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Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia. Per citare le parole di Franco Basaglia, maestro di visione, che anima dall’interno il percorso di queste edizioni. La collana è curata da Peppe Dell’Acqua, allievo e amico di Basaglia, accanto a lui nella grande avventura di scienza, cultura e civiltà, che portò alla legge 180. Psichiatra, per quasi vent’anni direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste e tra i creatori del Forum della salute mentale, Dell’Acqua è il punto d’unione perfetto tra le diverse discipline coinvolte nello studio della mente umana. Le diverse discipline. Non la singola. Perché è attraverso un approccio plurale, partendo da sensibilità spesso antitetiche, che si può e si deve principiare qualsiasi discorso di studio che abbia a che fare con l’umano. Questa, di fondo, è la grande lezione basagliana. Non una sola disciplina, non un solo metodo, ma la costante disponibilità a utilizzare tutto quello che si ha a disposizione, tutto quello che può essere di supporto alla conoscenza vera e, soprattutto, al benessere di chi ci chiede aiuto.

 

Si potrebbero citare molte delle loro pubblicazioni, ma su tutte sono due quelle che si sono lasciate leggere con vera passione. (Tra Parentesi). La vera storia di un’impensabile liberazione. Per chi vuole conoscere l’avventura che portò alla legge 180, raccontata dallo stesso Dell’Acqua che ne fu uno dei protagonisti. Dal manicomio di Gorizia, dove iniziò a muoversi Basaglia e il suo gruppo di amici-allievi, sino a Trieste, a quella epocale rivoluzione che fu l’apertura del locale manicomio con il corteo di Marco Cavallo. Ma, ancor più della testimonianza di Dell’Acqua, è da leggere obbligatoriamente il libro di Flora Tommaseo, “La stanza dei pesci”, con una bella introduzione di Claudio Magris. In forma di diario, la storia di Matilde, semplicemente emblematica. La trascrizione di un’anima viva, incandescente, che finisce, come succede spesso, per farsi travolgere da se stessa, fino all’autodistruzione. Ma Matilde è malata? E di cosa? O non è forse il sistema, l’istituzione, a preferirla inquadrata, ingabbiata dentro una patologia?

 

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Non esistono risposte semplici, né condotte sicure. Forse, occorre lo stesso coraggio di Matilde, lasciarsi andare dentro l’esistenza, anche a costo di soffrire, perdersi. Non è forse questo l’unico modo di vivere? E se i malati veri fossero tutti quelli che vogliono uscire indenni, inconsumati, dal viaggio della vita? Confondere la salute con l’ignavia. Forse è questa l’unica vera malattia.

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