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Una fogliata di libri

Un rassicurante lockdown in una capanna alle Svalbard

Guido De Franceschi

“Una donna nella notte polare”, scritto da Christiane Ritter alla fine degli anni Trenta, racconta il suo soggiorno di un anno nell’isola di Spitsbergen. Il rifugio, la capanna, il lockdown in uno spazio ristretto da cui guardare il mondo che c’è fuori

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Una casetta che a starci a lungo è troppo piccola. E che a starci da soli è alienante. Ma non appena vi fa ritorno anche qualche altro convivente, ecco che subito lo spazio si sovraffolla. Il mondo che c’è fuori dalla casetta, anche se visto dalla finestra certe volte sembra molto attraente, fa un po’ paura perché vi si avverte una forza primigenia, che sfugge al controllo umano. E, in effetti, stare fuori dalla casetta può essere davvero molto pericoloso. E anche quando, avventurandosi all’esterno, la meraviglia si rinnova e anzi supera ogni aspettativa, bisogna però muoversi sempre con enorme circospezione.

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Una casetta che a starci a lungo è troppo piccola. E che a starci da soli è alienante. Ma non appena vi fa ritorno anche qualche altro convivente, ecco che subito lo spazio si sovraffolla. Il mondo che c’è fuori dalla casetta, anche se visto dalla finestra certe volte sembra molto attraente, fa un po’ paura perché vi si avverte una forza primigenia, che sfugge al controllo umano. E, in effetti, stare fuori dalla casetta può essere davvero molto pericoloso. E anche quando, avventurandosi all’esterno, la meraviglia si rinnova e anzi supera ogni aspettativa, bisogna però muoversi sempre con enorme circospezione.

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Ricorda qualcosa? Sarà per questo che oggi, leggendo un vecchio gioiello del nature writing, il nostro occhio si sofferma proprio lungo quelle pagine “indoor”, e cioè al riparo dal mondo, che probabilmente in altri periodi avremmo scavalcato con più disattenzione. Il libro di cui stiamo parlando, scritto con scintillante semplicità da Christiane Ritter alla fine degli anni Trenta e già comparso fugacemente in italiano nel 1953, è “Una donna nella notte polare”, appena riproposto dall’editore Keller (298 pp., 18 euro).

 

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È il resoconto della pazzesca avventura vissuta dalla Ritter, un’artista austriaca versata nel disegno ma sedicente casalinga, che nel 1934 decide di raggiungere per un anno il marito Hermann, che da qualche tempo fa il cacciatore nell’isola di Spitsbergen, nell’arcipelago delle Svalbard, un avamposto artico di quelli veramente hardcore. La “casa” che Christiane dividerà con suo marito Hermann e con l’aiutante norvegese Karl è una capanna microscopica e molto rabberciata, che si trova appoggiata tutta sola su una plaga sassosa lontana da ogni altra forma di vita umana e, per intere settimane, anche da ogni forma di vita animale.

 

Ovviamente, il soggiorno di Christiane in quel posto insensato comprende anche il periodo della notte artica, che è la parente più prossima del buio eterno. Se è stata ridimensionata dai linguisti la diceria secondo cui gli inuit hanno decine di vocaboli per indicare la neve, Christiane Ritter è invece capace di variazioni davvero inesauribili nel raccontare l’ambiente delle Svalbard. Una descrizione di questo posto che è meravigliosissimo e spaventosissimo, ma che ha però, salvo rare eccezioni, soltanto due varianti cromatiche e soltanto due condizioni climatiche lascerebbe stecchito di noia qualunque lettore sprovvisto di perversioni glaciofile.

 

E invece a ogni pagina del suo unico libro la Ritter, grazie al filtraggio dei dati fisici esterni attraverso la sua mutevole interiorità, ci sorprende di nuovo, descrivendo in modo del tutto diverso lo stesso identico luogo. La sua scrittura sa essere accecante come un’illusione e il suo è un racconto che affascina anche chi della natura non sa bene che cosa farsene passeggiandoci dentro dal vivo e figuriamoci quando è raccontata su carta.

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Perché i panorami della Ritter sono tutti interiori, anche quando descrive una trappola per volpi: infatti a lei, come scrive, interessano soprattutto i momenti “in cui l’animo umano si trasforma, la realtà del mondo fenomenico svanisce nel nulla e tutti gli appigli e gli stimoli del grande mondo esterno ci sfuggono piano piano”. Questo libro non risente peraltro di nessuna delle tare vitalistiche che spesso impiombano i racconti dell’esploratore che doma l’ignoto o dello scalatore che soggioga la vetta.

 

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“Una donna nella notte polare” è invece uno splendido racconto “in difesa”: perché, sì, Christiane cederà all’innamoramento per l’Artico e al suo ritorno nella civiltà si troverà addirittura spaesata, ma fino all’ultimo minuto del suo soggiorno nell’isola di Spitsbergen utilizzerà il meglio delle sue energie per “ripararsi” da un mondo esterno che, ancorché magnifico, è inesorabile e letale. E anche in un ambiente estremo come quello artico è comunque lì, dentro casa, nella nostra microscopica capanna tutta rabberciata, che possiamo ripararci, quando fuori il mondo è troppo pericoloso. È lì che possiamo essere fino in fondo noi stessi. È lì che possiamo sfogare tutte le nevrosi che ci rendono le persone che siamo davvero.

 

. È lì che possiamo finalmente abbassare la guardia perché tanto non rischiamo niente: “Torno nella capanna. La sua trascuratezza e il nero untuoso mi sghignazzano in faccia da tutti gli angoli. Non riesco più a trattenermi, non c’è nessuno che me lo possa proibire, e prima ancora che il mio buonsenso abbia il tempo di sollevare un’obiezione contro l’assurda iniziativa, inondo l’intera stanza di acqua bollente e sapone. Spazzolo con una gioia a dir poco feroce. Quando mio marito rincasa, l’acqua sulle pareti e sul pavimento si è ghiacciata. La capanna luccica come un palazzo di cristallo. ‘Ma sei matta?’ grida. ‘Meglio matta in una capanna pulita che normale in un porcile!’ ribatto e continuo a spazzolare”.

 

E oggi è proprio lì, tra le pagine ambientate al chiuso di “Una donna nella notte polare” – che forse erano state pensate soltanto come delle brevi chiusure di sipario per un rapido cambio di scena tra il racconto di una navigazione in mezzo ai ghiacci affioranti e quello di una sortita ad alto rischio di aggressione da parte di un orso – oggi è proprio lì, nel racconto del rifugio, della capanna, del lockdown in uno spazio ristretto da cui guardare il mondo incredibile che c’è fuori attraverso una fessura, che il memoir di Christiane Ritter trova un altro suo nuovo e imprevedibile centro gravitazionale.

 

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