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La domanda che resta in ogni artista consapevole

Edoardo Rialti

Da Alan Moore a Ursule Le Guin, il bisogno di leggere storie "contro" sognando un mondo migliore. Leggere “Miti e Molotov” (Contrabbandiera), una ricca e bella raccolta di dialoghi dell’artista Margaret Killjoy con scrittori e scrittrici sull’immaginazione anarchica. 

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Tu puoi davvero tornare a casa, purché tu comprenda che ‘casa’ è un luogo in cui non sei mai stato”. E’ l’intuizione dello scienziato anarchico protagonista del romanzo fantascientifico “I reietti dell’altro pianeta” della fata madrina del fantastico novecentesco, Ursula Le Guin. Il suo discorso per il National Book Award è celebre per la stoccata in difesa degli scrittori mai premiati in quanto “non realistici”, ma Le Guin, che aveva sfidato tante convenzioni con i suoi personaggi di colore (spesso sbiancati nelle copertine) e dal genere fluido (“La mano sinistra delle tenebre” già immaginava un mondo in cui mutare sesso), pochi istanti dopo, attaccando un capitalismo che molti ritengono inevitabile, ricordò ai presenti che si pensava lo stesso del diritto divino dei re. E’ proprio lei la prima intervistata di “Miti e Molotov” (Contrabbandiera), una ricca e bella raccolta di dialoghi dell’artista Margaret Killjoy con scrittori e scrittrici sull’immaginazione anarchica.

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Tu puoi davvero tornare a casa, purché tu comprenda che ‘casa’ è un luogo in cui non sei mai stato”. E’ l’intuizione dello scienziato anarchico protagonista del romanzo fantascientifico “I reietti dell’altro pianeta” della fata madrina del fantastico novecentesco, Ursula Le Guin. Il suo discorso per il National Book Award è celebre per la stoccata in difesa degli scrittori mai premiati in quanto “non realistici”, ma Le Guin, che aveva sfidato tante convenzioni con i suoi personaggi di colore (spesso sbiancati nelle copertine) e dal genere fluido (“La mano sinistra delle tenebre” già immaginava un mondo in cui mutare sesso), pochi istanti dopo, attaccando un capitalismo che molti ritengono inevitabile, ricordò ai presenti che si pensava lo stesso del diritto divino dei re. E’ proprio lei la prima intervistata di “Miti e Molotov” (Contrabbandiera), una ricca e bella raccolta di dialoghi dell’artista Margaret Killjoy con scrittori e scrittrici sull’immaginazione anarchica.

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Nei primi vent’anni del nuovo millennio, sull’onda della crisi economica, ambientale e politica, sono proliferate le narrazioni distopiche (spesso riproponendo variazioni sul tema di Antigone, con un ragazzo o una ragazza a sfidare gli editti d’una società basata sulla rimozione violenta di qualche elemento basilare della natura umana); assai minori sono le utopie, e dire che sono state proprio queste, vagheggiate, temute o parodiate in un altro amletico “mondo fuori dissesto” come quello del ’500-600, nelle opere di Moro, Bunyan e Shakespeare (“Nel mio stato / Governerei eseguendo tutto / Contrariamente agli usi… Sovranità, nessuna”, si sogna ne “La Tempesta”) a gettare semi che saranno poi analizzati da Marx, Engels, Gramsci o dai loro primissimi commentatori e traduttori.

 

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Certamente, una componente di critica dei sistemi sociali ed economici è sempre presente in tutta la fantascienza, da Dick agli Strugackij, e pure la raccolta della Killjoy rischia di fare dell’anarchia una parola-valigia nella quale ficcare ogni contestazione radicale, ma ciò non sottrae niente al fascino prismatico delle risposte fornite dai vari intervistati (da singoli autori celeberrimi a nomi d’arte collettivi), che si interroga su cosa significhi per loro anarchia e cosa sperino di ottenere raccontando storie, ognuno fornendo risposte diverse: c’è chi difende la necessità di restare eretico e cane sciolto, chi milita in comunità, chi è consapevole delle sclerotizzazioni esterne (“Quel che mi ha colpito è che per Hollywood V per Vendetta non è stato altro che la soluzione trovata da un branco di liberal statunitensi frustrati e impotenti per convincersi di aver dato voce alla loro incazzatura rispetto alla situazione attuale senza correre alcun rischio”, commenta Alan Moore) e interne (“E’ una cosa che osservi tanto nei circoli politici radicali quanto in quelli degli scrittori: quella sorta di ribrezzo automatico nei confronti della tecnologia e la feticizzazione della natura”, Rick Dakan), in primo luogo la tendenza a leggere e scrivere troppi saggi e poche storie. Invece abbiamo sempre bisogno di racconti da contrapporre alle narrazioni asfittiche che ci circondano, ai modelli più facili, ottusi e violenti, le “storie che diventano legge” del consumismo.

 

Narrativa e immaginazione rimangono questo luogo privilegiato, capaci di commuoverci e convincerci che un altro mondo è possibile proprio perché, a differenza d’un enunciato teorico, ci colpiscono con le difese abbassate, per il desiderio che suscitano (“In molti mi hanno detto: “Voglio andare a vivere in quel posto”. E’ una maniera di ricavare un po’ di terreno dove la gente possa stare e iniziare a pensare: “Come facciamo a creare il mondo che vogliamo?”), per ciò che ci fanno improvvisamente vedere, dentro e fuori di noi. Chi scrive ricorda distintamente di essersi scoperto d’accordo col movimento No Tav mentre ascoltava in riva al mare l’audiolibro d’uno sci-fi di R. Morgan (“Tutti hanno visto nel potere un apparato statico, una struttura. E non lo è. E’ un sistema dinamico, fluido, con due possibili tendenze. Il potere si accumula, oppure si diffonde nel sistema”). Michael Moorcock (che accusava Tolkien di ergere la borghesia hobbit come scudo contro il caos) sostiene di avere aristocratici tossicomani e divinità come eroi proprio perché tutti dovrebbero essere gli dèi di sé stessi.

 

Ma forse l’augurio più bello resta quello di Professor Calamity: “Spero di ottenere la liberazione dei miei fratelli e delle mie sorelle e l’abolizione definitiva dell’autorità. Se questo piano dovesse fallire, spero di raccontare gran belle storie che non siano troppo lineari. L’ambiguità mi piace: non l’astuto oscurantismo postmoderno, ma la caotica ambiguità quotidiana che viviamo giorno per giorno”. Cosa si ambisca a liberare, dentro e fuori di noi, resta la domanda “semper reformanda” d’ogni artista consapevole, così come il pungolo e l’augurio a esprimerlo in storie che non siano troppo facili, anzitutto per noi stessi.

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