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Goncharov trovò il suo sereno angoletto in mezzo al mare

Rinaldo Censi

Diversamente dal suo fragile personaggio, Oblomov, colto sempre in bilico tra realtà e sogno, sprofondato in una sorta di olimpica pigrizia infantile, lo scrittore si mostra figura eminentemente grigia, rigida

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Quando nel 1849 la rivista Il Contemporaneo pubblica “Il sogno di Oblomov”, estratto di un romanzo ancora incompiuto (apparirà dieci anni dopo), Ivan Aleksandrovicč Goncharov non avrebbe immaginato che, di lì a tre anni, avrebbe disatteso il contenuto di quelle prime pagine. “Dove siamo? In quale beato angolo della terra ci ha trasportato il sogno di Oblomov?”. Qualcosa deve essere andato storto, il sogno deve essersi fatto beffe di colui che l’ha scritto, dato che invece di planare su Oblòmovka, nel porto sicuro di una campagna immaginaria, tra alberi in fiore e ruscelli, l’autore si è ritrovato in mezzo al mare, su una nave militare, sovrapposto a quel personaggio cartaceo su cui da tempo stava lavorando e che per nessuna ragione al mondo avrebbe voluto trovarsi lì: Oblomov. La prima pagina del sogno lo ricorda chiaramente: “Il mare, per esempio, non infonde nell’uomo altro che un senso di tristezza; a guardarlo, vien voglia di piangere”.

   

Quando parte da Kronštadt sulla Fregata Pallada (così si intitoleranno le sue note di viaggio, che vorremmo vedere ristampate) è il 1852. Goncharov all’epoca ha già pubblicato un romanzo: “Una storia comune”. Del successo gli importa forse poco. Lavora a San Pietroburgo presso il ministero delle Finanze. Vi rimarrà diciassette anni, per poi spostarsi nel 1855 al ministero dell’Istruzione in qualità di censore, scatenando le ire dei suoi colleghi scrittori. Impiegato-scriba, si installa nei nuovi uffici poco dopo essere rientrato dal suo avventuroso periplo tra gli oceani, la lunghissima vacanza in nave che incautamente si è autoinflitto, di cui renderà conto in forma epistolare. Per più di due anni ha navigato intorno al mondo spedendo lettere. Poi, una volta rientrato, le ha recuperate, disposte e aggiustate in due volumi. Lo ricorda nella prefazione alla terza edizione del libro. Però alcune devono essere andate perdute. Il primo volume si apre infatti con un’osservazione dell’autore. Si lamenta con l’anonimo destinatario, stupito che non abbia ricevuto due missive a lui indirizzate: la prima dall’Inghilterra (del 2-14 novembre 1852), la seconda da Hong Kong: “Proprio da luoghi dove si ha cura della sorte di una lettera come di quella di un neonato”. Questa spocchia catastale, lo spezzare il capello in quattro sulle date, lo sbrigare la posta, deve essere un riflesso burocratico. Qualcosa, per un istante, lo riporta agli spazi confortevoli dell’ufficio ministeriale in cui lavorava. Qualcosa di simile al “sereno angoletto” caro a Oblomov.

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Diversamente dal suo fragile personaggio, colto sempre in bilico tra realtà e sogno, sprofondato in una sorta di olimpica pigrizia infantile, Goncharov si mostra figura eminentemente grigia, rigida. Fausto Malcovati lo descrive: “Personaggio noioso, squallido, anche un po’ antipatico”. Prendete gli affetti o le amicizie, ad esempio. Fa fede il testamento: dona tutti i suoi averi alla vedova del suo domestico. Per un attimo viene il sospetto che la forma epistolare se la sia davvero inventata. Eppure questo lungo viaggio intorno all’Africa e all’Asia, fino all’approdo finale in Siberia, contiene minuziose pagine di diario, mirabili notazioni di luoghi, persone, dialoghi, usanze, cibi, costumi. Goncharov le articola all’interno di una serie di “quadri” più o meno ampi, capaci di testare variazioni atmosferiche, la consistenza delle custard apples, il colore azzurro del mare a Capo Verde, o quello nero rischiarato dai lampi mentre doppiano il Capo di Buona Speranza. Certe descrizioni sono rese con la pedanteria impiegatizia di un agrimensore intento a stabilire la mappa di un territorio. Passano davanti ai nostri occhi i rushes di un film. Cose viste. Le donne indiane e i loro gioielli. Le ladies inglesi a Singapore. La barriera corallina nelle isole Ryu-Kyu. Il sakè, la gestualità ieratica e antica delle cerimonie giapponesi (che gli ricorda la sua amata Russia). Le strade di Londra, colte in preda alla stupefazione, tra vapori di carbon fossile. Stupefazione? Rivolgendosi a destinatari sconosciuti, Goncharov descrive ciò che sta davanti ai suoi occhi con accuratezza super-realista. Ma i suoi “quadri” fluttuano tra analogie, metafore: sembra tradurre lo straordinario nel noto, l’esotico nel quotidiano. Nei pressi dell’oceano, mentre il timoniere scrutava le onde, aveva scritto: “Vedrò cose nuove, a me straniere, e subito comincerò a misurarle… secondo il nostro metro. Vi ho già detto che il risultato che si cerca in un viaggio è un parallelo tra le cose degli altri e quelle di casa nostra. Siamo così profondamente radicati in essa che, ovunque io vada e per quanto resti lontano, porterò dappertutto sotto le suole la terra della natia Oblòmovka e nessun oceano potrà mai levarla”. Come Oblomov, è così pigro che a volte si rifiuta di scendere a terra per visitare paesi sconosciuti. Ha trovato il suo “sereno angoletto” nella cabina di una nave. Lì ha l’impressione di trovarsi in ufficio. Può dunque riportare il mondo che ha visto su carta.

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