Camillo Sbarbaro è il padre del nostro Novecento poetico

Daniele Mencarelli

Il poeta che introdusse nell’arena del verso temi e paradossi umani tipici del secolo che lo videro sorgere e tramontare

Come nave senz’ancora né vela / che abbandona la sua carcassa nell’onda. / Ed aspetto così, senza pensiero / e senza desiderio, che di nuovo / per la vicenda eterna delle cose / la volontà di vivere ritorni.

 

Nell’albero genealogico del nostro Novecento poetico, secolo imbattibile, paragonabile soltanto al Quattrocento, resiste una casella vacante, quella del principio da cui tutto si ramifica. Perché Camillo Sbarbaro, malgrado le errate collocazioni di cui fu vittima per buona parte della sua vita, questo è. Il padre del nostro Novecento. L’uomo, il poeta che introdusse nell’arena del verso temi e paradossi umani tipici del secolo che lo videro sorgere e tramontare. Camillo nacque a Santa Margherita Ligure, il 12 gennaio 1888. Il padre Carlo era un ingegnere e architetto, uomo di mitezza assoluta, destinatario di liriche rimaste incise nella costellazione della letteratura italiana. La madre di Camillo, Angiolina, perché nei poeti questo occorre, l’amore e la ferita, era l’altro suo punto cardinale, persa prestissimo. Angiolina muore lasciando i figli Camillo e Clelia nelle mani affettuose di sua sorella Maria. Queste figure famigliari, nella nostra poesia certi topoi sono architettura resistente a tutto, diventeranno corpo di tutta l’opera sbarbariana. Il giovane Camillo è figlio del suo tempo, ma a modo suo, il suo carattere è schivo, riservato, non ha quell’esibizionismo tipico di tanti suoi coevi, né il fanatismo ideologico, si pensi alla star D’Annunzio, egli vive sostanzialmente nelle piccole cose che la sua terra ligure gli offre. Proprio delle piccole cose offerte dalla natura inizia a fare teoria, catalogo minuzioso, rigoroso. I licheni rappresentano per lui la forma più espressiva della natura, capace di vivere in ogni condizione, sopra ogni suolo, laddove altre specie non possono. La sua fama di lichenista supera i confini nazionali, le sue collezioni, ancora oggi, sono custodite in mezzo mondo. Nel 1911 pubblica una prima plaquette, “Resine”, nata da una sottoscrizione dei suoi compagni di liceo. Nel novembre del 1912 anche il padre Carlo muore. Camillo, ventiquattrenne, sta lentamente maturando quella che diventerà la sua opera centrale, un’opera minuscola come uno dei suoi licheni rarissimi, ma non meno preziosa. E’ il 1914. Esce “Pianissimo”, per le Edizioni della Voce. La scelta dell’editore, a vederla oltre cent’anni dopo, è forse non felicissima. Perché fa nascere l’equivoco di fondo, quello che renderà marginale l’opera sbarbariana nell’affresco di quell’albero genealogico con cui tanta critica ha riassunto il nostro Novecento. Malgrado l’apprezzamento immediato di critici di prim’ordine, da Cecchi, Boine, senza contare i tanti poeti sorpresi dai versi di questo ligure atipico, proprio l’apparentamento con i vociani gli costerà non poco. Ma Sbarbaro è tutto tranne che vociano, in lui la tensione morale è lacerata, così come è tesa fino allo spasimo la sua vita apparentemente ordinaria, resa con una lingua che sembra sempre sul punto di saltare. Né esiste in Sbarbaro, forse questo il suo più evidente punto di anticonformismo rispetto ai suoi contemporanei, la visione dell’atto poetico come, anche, atto politico, capace di incidere sulla vita e le azioni del mondo. Allo scoppio della Prima guerra mondiale si offre volontario nella Croce rossa, altra decisione, a vederla oggi, atipica visto lo scenario politico e culturale, che voleva il mondo diviso nettamente in guerrafondai da una parte e non interventisti dall’altra. Dopo la guerra, la vita di Sbarbaro riprende il suo apparente anonimato, egli si divide tra le ripetizioni di greco e latino e lo studio amato dei suoi licheni. Malgrado il marchio di poeta vociano, la sua opera, quindi “Pianissimo”, inizia a circolare e a essere via via più apprezzata. Inizia a frequentare la società letteraria genovese, tra gli altri un certo Eugenio Montale, che capirà, più di tutti gli altri, la grandezza di Sbarbaro, e come poeta e come prosatore. Non dimentichiamoci, infatti, che la sua produzione fu soprattutto dedicata alla prosa, fra tutte si ricorda “Resine”, che fece da trait d’union proprio con il giovane Montale. La vita di Sbarbaro proseguì fino alla morte, nel 1967, esattamente come era principiata, un dialogo spesso silenzioso, portato avanti in egual misura con gli uomini e con l’amato mondo della natura.

 

Si è tanto detto del suo apparentamento con la poesia francese, specie Baudelaire, altrettanto è stata rimarcata la sua evidente discendenza leopardiana, il suo endecasillabo disadorno. Ma perché il nostro Camillo va collocato alla radice del nostro Novecento? Dove si gioca la sua centralità? La spinta innovativa? A nostro avviso nella percezione stessa delle cose, deformata da quel diaframma spinto a forza dal Novecento. La nevrosi. “Pianissimo”, nei momenti di rassegnazione disperata, quando il mondo è un grande deserto, e un improvviso gelo e un cieco par d’essere, anticipa quello che diventerà il più grande nemico dell’uomo contemporaneo.

 

Se stesso.

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