L'uomo Willie Maugham, così disperato e feroce

Giulia Ciarapica

La vena di crudeltà che tutti riconoscono nelle opere di Somerset Maugham non è immaginaria, chiaramente, anzi, è più che reale

"Non c’è bisogno che lo scrittore mangi una pecora intera per poterti dire che sapore ha il montone”: credo sia una delle frasi più geniali scritte dall’indimenticabile William Somerset Maugham, un’espressione che racchiude alcuni dei punti cruciali della sua poetica letteraria. La verità, il cinismo e la raffinatezza della forma. Ora, non tenterò di sfruttare questa sede per imbastire un panegirico di uno degli scrittori più famosi del Novecento, giacché – ne converrete con me – non ne ha alcun bisogno; ma mi preme risolvere una questione (se di soluzione si può parlare, o magari è un termine improprio, chissà): il cattivissimo Maugham, di cui la sua biografa Selina Hastings disse “violento come un tumore maligno”, era davvero così cinico e spietato da risultare un “cattivo naturale”, come è stato definito? A dispetto dei giudizi di certa critica, non ne sono pienamente convinta.

 

Partiamo da uno dei punti basilari: il cinismo. Che Maugham avesse fama di cinico è questione ben nota, dopotutto una delle raccolte di racconti più famose si intitola proprio “Storie ciniche”; anche nel romanzo “Lo scheletro nell’armadio” vi è un chiaro riferimento al cinismo quando si dice: “Se dici la verità ti danno del cinico, e a uno scrittore non giova aver fama di cinismo”. Molti dei personaggi delle storie di Maugham sono affetti da questa malattia non comune fra i lettori di fine Ottocento, ma molto di più nei lettori moderni, eppure nel ritratto intimo e sfaccettato che il nipote Robin Maugham ci offre di suo zio (il riferimento è al libro “Conversazioni con zio Willie”), emerge la figura di un uomo differente rispetto a quanto si possa immaginare: cupo, inquieto, introverso, timido, sovente depresso, questo era Willie, questo è ciò che forse i colleghi scrittori e i critici – non solo dell’epoca, ma anche attuali – hanno tralasciato o sottovalutato. “Nei miei libri mi sono spinto molto in là nel descrivere la natura umana come la vedo, ragion per cui ho fama di cinico”, dice Willie a Robin, “ma nel profondo del cuore sono un vecchio sentimentale”. E forse è stato realmente così, forse davvero il geniale creatore della diva Julia, della Rosie Drieffield de “Lo scheletro nell’armadio”, della moglie del colonnello del racconto omonimo presente in “Una donna di mondo e altri racconti”, così come della Elizabeth Vermont del racconto “La promessa” contenuto in “Storie ciniche”, forse proprio lui, in verità, era tanto simile ai suoi personaggi femminili da renderli così drammaticamente poetici. Perché tutte le donne delle storie di Maugham, anche quelle più lascive, le più capricciose, le più ciniche e le più losche, possiedono sempre un valore intrinseco da cui non è possibile prescindere: non sono mai personaggi bidimensionali, i suoi, anzi, hanno tutte un andamento sinuoso, volteggiante, arioso, sembrano sempre – alla fin fine – delle creature al di sopra e al di là del bene e del male; lì, in quello spazio mistico visibile solo al lettore più attento, risiede il valore ancestrale delle donne maughamiane. E chi può negare che il vecchio Willie, con tutte le sue turbe e le sue ossessioni, non viaggi al ritmo dei suoi stessi personaggi? Balbuziente fin da piccolo, Maugham non superò mai il trauma per la perdita di sua madre (come si intuisce chiaramente in “Schiavo d’amore”) e rimase sempre avvinghiato all’idea della ricchezza intesa non come conseguenza di un successo più che meritato – e che per lui arrivò subito, a trentatré anni – ma come certezza che non avrebbe più dovuto combattere con la miseria della sua condizione familiare dopo la perdita di entrambi i genitori. Non è tutto questo, forse, la testimonianza di una evidente dicotomia tra la vita del Maugham romanziere – spietato, cinico, di grande successo – e la vita del Maugham bambino, adolescente, uomo, che dovette sempre fare i conti con una omosessualità mai completamente accettata (“Io ero per un quarto normale e per tre quarti gay, ma cercavo di convincermi del contrario”)?

 

La vena di crudeltà che tutti riconoscono nelle opere di Somerset Maugham non è immaginaria, chiaramente, anzi, è più che reale: è un fiumiciattolo, un rivolo di verità destinato a sfociare in un mare burrascoso, perennemente in tempesta, in cui confluiscono tutte le sue debolezze più nascoste, le insicurezze, la paura della morte, l’odio per le persone soddisfatte di sé, il terrore morboso del contatto fisico con gli estranei.

 

Non esiste solo lo scrittore, Willie era anche un uomo. Disperato e feroce.

Di più su questi argomenti: