Bambini e rivoluzione
Così usiamo i più piccoli come proiezioni e mezzi per opprimerci a vicenda
Certo la retorica dell’azione, futurista e costruttivista, ha prodotto risultati indimenticabili in Majakovskij e in Ejzenstejn: ma se il primo si suicidò, il secondo fu vessato con sadica lentezza dalla dittatura. A metà anni Trenta, quando entrò in vigore il realismo socialista, la censura colpì il suo “Prato di Bezin” ispirato a Pavlik Morozov. Secondo il regime, il tredicenne Pavlik avrebbe fatto deportare il padre che sabotava l’attività del kolchoz e sarebbe stato ucciso dai famigliari; secondo gli storici, questo mito atroce nasconde una vicenda ancora più triste. Nel 1935, l’anno in cui i censori accusavano ĖEjzenstejn di formalismo, è ambientato “Lo spione”, uno dei quadri pubblicati da Brecht in “Terrore e miseria del Terzo Reich”. Salotto di Colonia, dopopranzo piovoso. Madre e padre battibeccano sull’attualità nazista. A un tratto si accorgono che il figlio è uscito, e subito temono che sia andato a denunciarli. Provano a ricordare se hanno pronunciato parole compromettenti, chiosandole con ridicola cavillosità. Al sipario il ragazzo torna con un cartoccio di cioccolata, ma i genitori lo guardano comunque sospettosi: bisogna credergli? “Ogni scolaro una spia. Non ha nulla, / in cielo o in terra, da imparare. / Ma chi ha qualcuno da denunciare?”, recitano i versetti d’apertura.
Nulla da imparare: ecco come la dialettica dell’illuminismo ribalta il mito romantico dell’onnisciente innocenza infantile nella purezza del boia. E’ la parabola che di lì a poco traccerà Sartre in “Infanzia d’un capo”, poi riscritto con l’occhio a est dal Kundera di “La vita è altrove”. Ma se il mio pensiero ha seguito il filo Morozov-Brecht è perché poche sere prima, a una cena, si parlava del fatto che spesso trasformiamo i bambini in un’arma, in un giudizio di Dio su di noi e sui nostri avversari. Di fianco avevo due insegnanti (lo è anche il padre dello “Spione”): una ragazza che sa tradurre la sua energia affettiva in sottilissima dialettica, e un amico che tornisce aforismi sorprendenti. Lei parlava di come combatte invano il bisogno di essere amata dagli alunni e il timore di esserne ricattata per una frase fuori luogo. Lui notava che i prof. si giudicano l’un l’altro usando il metro della classe: il suo scherno verso un collega li spinge a bullizzarlo. Il problema è che nel generale “Kind mit uns” i minori diventano degli dèi “per noi”.
Non li onoriamo per se stessi: li usiamo come proiezioni e mezzi per opprimerci a vicenda. Mentre riflettevo su tutto questo mi è venuto in mente che esiste una figura speculare a quella sovietica e brechtiana, una figura pure gettata oltre l’ethos famigliare e lasciata sola davanti al mondo. La sua condizione, tradotta in termini quotidiani, somiglia a quella dei figli dei migranti, che della società in cui vivono sanno molto più dei genitori, sperimentando l’obbligo straziante di proteggere chi dovrebbe proteggerli. Questa figura è Gesù tra i dottori, e si trova nell’unico episodio dei Vangeli che registra il tempo vuoto tra la nascita e la predicazione – l’unico episodio in cui il Redentore sfugge alla parabola sacra ed entra nella durata di una vita incapace di contenerlo. Troppo inerme e sapiente, il Cristo dodicenne ha rappresentato nei millenni la contraddizione e la dismisura di ogni buona novella e di ogni nuova venuta al mondo, cioè di ogni modernità infante che vuole trasformare radicalmente l’uomo e la storia.