Hotel Silence

Gaia Montanaro

di Audur Ava Ólafsdóttir, Einaudi, 200 pp., 18,50 euro

Jónas ha un dono: sa aggiustare le cose, le sa riparare. Questa volta però qualcosa si è rotto per sempre e Jónas non sa più come tornare indietro, ricomporre i pezzi di un’esistenza che sembra perduta. Il quarantanovenne islandese, divorziato, con una figlia che ha scoperto non essere biologicamente sua e una madre ormai in fase di declino, non riesce a trovare più un senso alla vita. Jónas si è smarrito, scisso tra il ricordo di ciò che era un tempo e il baratro di un futuro che non riesce più a intravedere. “Da questa parte sono io, dall’altra il mio corpo. Entrambi estranei allo stesso modo”. E allora l’uomo decide di partire per il suo ultimo viaggio, la meta è l’Hotel Silence dove ha stabilito di porre fine alla sua esistenza. Jónas si avventura solo con la sua cassetta degli attrezzi, che di solito utilizza per riparare e invece questa volta contiene ciò che gli servirà per uccidersi, e un cambio di vestiti. Ma quello che troverà al suo arrivo lo spiazzerà, aprendogli un nuovo squarcio di senso, una prospettiva attraverso la quale poter guardare alla sua vita in modo più liberante. L’Hotel Silence, dove “il silenzio sgorga come una montagna”, si trova in un paese martoriato dalla guerra civile, dove la distruzione e la mancanza di un domani sono ben visibili e dove chi è sopravvissuto tenta con tutte le sue forze di restare attaccato alla vita, di ricominciare. Tra questi ci sono Maí e Fifi, i due giovani gestori dell’hotel, e il loro bambino, occasioni di un incontro che per Jónas ha il sapore di una promessa di rinascita.

 

L’ultimo romanzo della Ólafsdóttir, una tra le voci più conosciute della letteratura islandese contemporanea, pone fin dalle prime pagine il lettore di fronte a una scelta: accettare di farsi condurre in un luogo altro, in una cultura e sensibilità altre e provare a guardare con gli occhi di un estraneo il mondo o non accondiscendere a questa premessa e quindi rimanere sempre un passo indietro rispetto al racconto. La narrazione porta con sé in modo netto e inevitabile tutte le caratteristiche di una cultura lontana, dalla natura stalagmitica nordica, al freddo, alla corporeità descritta in modo chirurgico più che sensoriale. Jónas ci dice poco di quello che pensa e prova, lascia parlare le azioni che nella loro nettezza e sinteticità acquistano per sottrazione una carica quasi lirica. Lo sguardo del protagonista è scarno, impietoso, lucidissimo, a volte profondamente deluso ma mai cinico. Anche nell’apparente rassegnazione permane in lui una sorta di strenuo e naturale attaccamento alla vita che lo rende in grado di accogliere l’imprevisto e di fargli pian piano spazio. Le mura dell’Hotel Silence sono il luogo fisico in cui Jónas è rimesso di fronte a se stesso, circondato da un silenzio assordante che svela il vero. Ed è proprio in questo silenzio che l’uomo trova il coraggio di scrivere alla figlia: “Ci sono ancora, sono ancora qui, sto cercando di capire il perché”. Grida un senso, grida la vita.

 

HOTEL SILENCE
Audur Ava Ólafsdóttir
Einaudi, 200 pp., 18,50 euro

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