recensioni foglianti
Morfisa (o l'acqua che dorme)
Antonella Cilento
Mondadori, 408 pp., 20 euro
Napoli non è velata, né malafemmina. Lasciate perdere i registi assessori a rilancio&denuncia. Antonella Cilento sa la sola cosa, di Napoli, possibile da sapere: che è una storia – e questo rende parecchio complicato conoscerla, perché “la natura delle storie è mutare sempre, svanire, rinascere”. Così, in questo, come in tutti gli altri suoi libri, studia, racconta e inventa, insomma fa avventura, senza mai dire, fare o spiegare, lei che scrive in un italiano stupendo e soffice ed è la sola che abbiamo capace di gemmarlo, di tanto in tanto, con il napoletano, come fosse la cosa più logica e naturale da farsi per l’uno e per l’altro, come fossero uno anulare e l’altro anello.
Al tempo di questo romanzo, Napoli è un Ducato – “di fatto indipendente: la sola epoca in cui la città non è asservita a nessun conquistatore” – dentro l’Italia bizantina, sgomberata poi da quella papalina. I longobardi l’hanno perduta, i normanni potrebbero conquistarla. I salernitani la odiano, gli arabi l’ammirano. Roma accarezza l’idea dello scisma, poiché “i napoletani sono troppo greci per esser bravi cristiani” – e poi parlano un greco vesuviano incomprensibile; le donne son tutte streghe, sia che siano monache e sia che siano mogli, sia che credano in san Gennaro, sia che credano in san Virgilio. E’ lì che le imperatrici di Bisanzio inviano il povero Teonafés Arghili, poeta erudito, senza talento e fifone (“riguardo alle avventure aveva deciso che l’importante era non viverle affatto”), allevato da mamma e ancelle che avrebbero voluto fosse femmina, innamorato cotto di Costantino, che però è destinato a mogli, figli e poemi. A lui, le perfide cape di Bisanzio (in questo romanzo c’è girl power a volontà) assegnano il compito di riportare, da Napoli, la figlia del duca napoletano, che – ma lui non lo sa, povero Teofanés – progettano di accoppiare proprio a Costantino. Durante il viaggio, il nostro poeta vede (sogna?) sirene, foche, monache e, soprattutto, ricorda con ambascia che sull’isolotto di Megaride, nel golfo napoletano, Odoacre il barbaro aveva spedito, dopo averlo deposto, Romolo Augusto, esiliandolo a vita, con ricco vitalizio. Quando arriva, trova sì la fanciulla ma la trova con la testa mozzata e una biscia che le esce dal cranio. E questa è solo la premessa dell’azione. Il resto è Napoli che si difende. Ed è sola, ma può contare sul suo mare, regno di Morfisa – madonna, bambina prodigio, custode dell’ovo di Virgilio (quello che si dice da secoli che regga la città e sia custodito nelle mura di Castel dell’Ovo, dentro una brocca piena d’acqua) e, all’occorrenza, balena – che tutto e tutti contagia, irretisce, fa impazzire, poiché l’Ovo di Napoli è come l’anello del Signore degli anelli: lo guardi e sei perduto, gli appartieni, gli vendi l’anima per la sua promessa. Napoli non ha niente di esoterico, ma tantissimo di omerico: significa, se prendiamo per buono Adorno, che, alla fine, è una città di ragione e luce, dove il maleficio viene sconfitto. Lei bada a tutto. Lei è spettacolo e noi pubblico, “quel bordo senza connotati che, dopo aver visto gli attori spogliarsi, torna a casa vestito”. Dieci e lode ad Antonella Cilento.
MORFISA (O L'ACQUA CHE DORME)
Antonella Cilento
Mondadori, 408 pp., 20 euro
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