Vladimir Nabokov

La grande domanda di Nabokov

Matteo Marchesini

Un artista di questa statura ci costringe a domandarci se dagli anni Trenta la forma romanzo non sia divenuta qualcosa di simile a una superstizione

Ho letto con ritardo l’ultimo (fino al 7 settembre) Nabokov stampato da Adelphi, “Una risata nel buio”. Risale agli anni Trenta, subito prima che lo scrittore passasse dal “miraggio” della lingua russa all’“oasi” dell’inglese. Lo sfondo è una Berlino non amata, a cui si affiancano la Costa Azzurra, l’Italia e la Svizzera. “C’era una volta un uomo che si chiamava Albinus (…) Era ricco, rispettabile, felice; un giorno lasciò la moglie per un’amante giovane; l’amò; non ne fu riamato; e la sua vita finì nel peggiore dei modi”: così recita l’incipit, dove l’autore riassume l’intero libro con la temerarietà di chi pratica gli sport narratologici più estremi. Anche la “Risata”, come l’“Incantatore”, fa pensare a un incunabolo di “Lolita”, considerando lo sguardo ipnotizzato in cui Albinus avvolge l’amante Margot, una proletaria fanciullesca, anaffettiva e impudica. In più qui c’è anche un Quilty, il diabolico disegnatore e falsario Axel Rex. Ma a parte il fatto che più che di Humbert l’imbranato Albinus è parente di Pnin, e di tutti i professori nabokoviani ridicolmente ignari della vita, è meglio leggere la “Risata” come un perfetto specimen di poetica. I personaggi si prestano a interpretazioni metaletterarie. Rex è un misto di scientificità impassibile e crudeltà derisoria: cresce seviziando gli animali, e quando Albinus si ritrova cieco lo tortura in una situazione degna di “Thérèse Raquin”; ma appunto questi tratti favoriscono la sua riuscita di “artista superbo”, che con “curiosità fredda” gode “a mettere in ridicolo la vita trasformandola (…) inesorabilmente in caricatura”. Non somiglia forse, il “superbo” Rex, al naturalista Nabokov, “falsario” dei classici che liquida la densità di vita e tradizione in fantasmagorie da supremo fumettista?

Nei testi nabokoviani, un mondo viene gonfiato e sgonfiato sotto i nostri occhi come una sagoma di cartoon: si pensi alla scena “kafkiana” di “Invito a una decapitazione”, o alle silhouette noir di “Disperazione”. Con la sua intelligenza geometrica e caleidoscopica, lo scrittore russo danza su un universo di tarocchi stupido ed efferato. Da una parte c’è il gusto strutturale dello scacchista, dall’altra l’ebbrezza percettiva che gremisce la pagina: e in mezzo restano schiacciate psicologia e società, ossia i cardini della narrativa moderna. Non è più il tempo dei romanzieri, sembra: cioè, per stare alla “Risata”, dei pittori studiati da Albinus. L’epoca appartiene a chi, realizzando la fantasia che rovina il professore, traduce in film d’animazione gli antichi maestri: è il tempo degli illusionisti burloni come Rex (e Quilty), che giocano con la vertiginosa futilità del caso raddoppiandolo negli specchi, riducendo i destini umani a Witze atroci, e “girando” le storie dalla prospettiva di un oggetto insignificante o di un sardonico burattinaio. Amori, dittature e omicidi diventano così incubi evanescenti, macchie d’inchiostro. Il narratore ironico, parodia del romanziere, ci mostra i personaggi e gli eventi come ombre cinesi o riflessi in una pozza, per sbarazzarsene poi con una sprezzante didascalia. Di struggentemente umano rimangono due cose: i bambini (si veda il David di “Un mondo sinistro”) e certe figure femminili che conservano la fragranza intatta di un possibile futuro o di un ricordo soave (si vedano “Ada” e le donne della “Vera vita di Sebastian Knight”). Per il resto, nell’esecuzione propriamente narrativo-romanzesca prevale la schematicità brutale di chi si disfa di un orpello o lo trasforma in décor. In questo senso Montale giudicava “Lolita” il canovaccio di un film ricavato “da un originale che non esiste”, e Nabokov più un regista che un romanziere.

 

La rimozione di ciò che gli appare dozzinale indica un limite dello scrittore; ma indica anche aporie non riconducibili alla sua sola storia. Fa riflettere che Nabokov, per esibirsi nei suoi meravigliosi giochi, abbia comunque bisogno degli stampi tradizionali, come se non sapesse dove altro mettere tanta genialità. Davanti alla sproporzione tra quei fuochi d’artificio e gli scheletri di romanzo umiliati che li ospitano, ci si chiede a volte se fossero gli unici contenitori possibili (non “costa troppo” questa tecnica mista, come dicono ad Albinus quando propone di animare i quadri coi cartoni a colori?). Nabokov era così avvertito, che il dubbio suggerisce uno scacco epocale: mentre i vecchi generi narrativi agonizzavano, la letteratura d’occidente non ha trovato nulla con cui sostituirli. Un artista di questa statura ci costringe a domandarci se dagli anni Trenta la forma romanzo non sia divenuta qualcosa di simile a una superstizione.

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