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uffa!

Tutti contro il capitano Ultimo, vittima della guerra ideologica contro il Male presunto

Giampiero Mughini

Il libro di Pino Corrias su un caso di accanimento giudiziario contro il carabiniere la cui squadra, la mattina del 15 gennaio 1993, catturò Totò Riina. Poi il calvario delle accuse e dei processi per favoreggiamento. Una carriera distrutta, e non risarcita dall'assoluzione

Pino Corrias è uno scrittore i cui testi ben si accomodano alle pagine di un quotidiano o di un settimanale. Immancabilmente io li leggo con piacere, un piacere che si estende alla lettura di molti dei suoi libri, a cominciare dal lontanissimo Vita agra di un anarchico (1993) che onorava il grande Luciano Bianciardi. Dopo quella del 2019, esce adesso in seconda edizione Hanno fermato il capitano Ultimo (Milano, Chiarelettere) il libro che Corrias aveva dedicato al capitano Ultimo e che allora mi era sfuggito. Un libro che arriva a fagiolo nel momento in cui gli schermi televisivi italiani offrono da mane a sera le immagini di Matteo Messina Denaro appena catturato da uomini alla maniera del capitano Ultimo, quello che alla testa di un gruzzolo di “soldati straccioni” il 15 gennaio 1993 aveva acciuffato nel centro di Palermo nientemeno che la “belva” Totò Riina, colui che nel dargli la caccia avevano soprannominato “Sbirulino”. Solo che in questi trent’anni da eroe il capitano Ultimo è passato al rango di imputato bersagliato dalle accuse le più varie e le più insistenti. Al punto che per ben due volte sono stati sul punto di togliergli la scorta, lui di cui è lampante quanto faccia da oggetto di una possibile rappresaglia della mafia. “I carabinieri sono una piramide formata da centodiecimila uomini. Seduto in cima alla piramide c’è il comandante generale, che per i centodiecimila carabinieri sottostanti abita un gradino sotto Dio. E da lassù li guarda. Gli ultimi tre comandanti generali, Tullio Del Sette, Giovanni Nistri, Teo Luzi, in mezzo a tante guerre, hanno sempre trovato il tempo di combatterne una in comune, la guerra a Ultimo”, ha scritto Corrias. Vale la pena seguire il suo racconto della vicenda, quella di un uomo che ha trionfato nel combattere la mafia e che pur tuttavia ha passato gli ultimi anni prima della pensione in un ufficio/bugigattolo alla fine di un corridoio. 

E’ una vicenda che Corrias ci tiene a raccontare da scrittore. Il capitano Ultimo, il cui vero nome è Sergio De Caprio, era nato in provincia di Montevarchi nel 1961 e dunque ha appena trentun anni quando il tritolo della mafia nel 1992 distrugge dapprima la vita di Giovanni Falcone e poi quella di Paolo Borsellino. In quel momento il suo campo d’azione è Milano, da una cui caserma di via della Moscova sta conducendo da tempo una battaglia contro la corruzione e il malaffare nel Nord Italia. Lo chiamano a Palermo, dove lui si porta dietro gli uomini che è andato via via selezionando uno a uno. Solo che sul capo della mafia, quel Totò Riina latitante da 23 anni, loro a Palermo non trovano nulla se non tre o quattro paginette di informativa, nonché una sua foto scattata quarant’anni prima. E dire che in quei 23 anni la moglie ha messo al mondo quattro figli nella migliore clinica di Palermo. Possibile che nessuno avesse mai individuato una traccia del suo passaggio in città? Finché l’8 gennaio del 1993 viene arrestato un mafioso del clan dei corleonesi, Balduccio Di Maggio. E’ lui a indicare agli uomini del tenente colonnello Mario Mori alcuni indirizzi palermitani di certo frequentati da Riina. Mentre sta entrando in uno di questi, al numero 34 di via Bernini, i carabinieri del Ros individuano la moglie di Riina. Alla mattina del 15 gennaio 1993 la squadra di capitano Ultimo si apposta innanzi al cancello di via Bernini. Da cui esce un’auto su cui sono due uomini, uno dei quali Riina. Lo afferrano e lo portano in caserma dove Ultimo lo fa fotografare sotto una foto del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, da sempre il mito del carabiniere che lui era orgoglioso di essere. Al pomeriggio del 15 gennaio qualcuno avanza l’ipotesi di perquisire a via Bernini quello che era stato il “covo” di Riina. Ultimo obietta che in questo modo farebbero sapere ai mafiosi di avere individuato questo “covo” e tanto più che con tutta probabilità è stato ripulito già alla notizia dell’arresto. Il magistrato Gian Carlo Caselli, appena divenuto capo della procura di Palermo, concorda con Ultimo. Era a lui che spettava la decisione finale, se sì o no perquisire. “Il dottor Caselli sa benissimo che se quel pomeriggio del 15 gennaio 1993 avesse ordinato di perquisire tutte le ville e tutti gli inquilini di via Bernini, di via della Regione Siciliana, di piazzale Kennedy, noi l’avremmo fatto perché era lui il responsabile dell’indagine”, ha confidato Ultimo a Corrias. 

Epperò il vento ci mise poco a cambiare direzione: nel 1999 la procura di Palermo formalizza l’avvio di un’inchiesta per la “mancata perquisizione” e tre anni dopo, nel 2002, il generale Mori e il capitano Ultimo si vedono imputati di “favoreggiamento a Cosa Nostra”. Nel maggio 2005, dodici anni dopo la cattura di Riina, Mori e Ultimo vengono assolti. Parte a questo punto un secondo processo contro Mori e il colonnello Mauro Obinu, accusati di non aver voluto catturare l’altro gran latitante della mafia siciliana, Bernardo Provenzano, e questo per ricambiare la cortesia che lui avrebbe fatto “consegnando” Riina dopo adeguata trattativa. Condannato a 12 anni in primo grado, Mori viene assolto in appello. Processi lunghissimi che hanno comportato decenni di gogna e per Mori e per il capitano Ultimo. Processi dovuti alla perentorietà ideologica di magistrati d’accusa che a tutti i costi vogliono raccontare la criminalità come sovrastante gli uomini della democrazia, ossessionati come sono da un Male contro il quale solo loro sono moralmente attrezzati a sufficienza. Un’ossessione persecutoria che ha stravolto la vita e il destino professionale del capitano Ultimo, uno peraltro che non le mandava a dire quando indagava su partiti e uomini di ogni sponda. Quando minacciarono di togliergli la scorta, 120 carabinieri si proposero di fargli da scorta nei momenti in cui non erano in servizio.