Giovanni Bonaldi, Jean Blanchaert, Arturo Schwarz, Gino Di Maggio, Milano 2014 (foto Wikimedia Commons) 

uffa!

Trockij in Italia lo portò Arturo Schwarz, contro l'ossequio filosovietico

Giampiero Mughini

Lascia stupiti il silenzio che il giugno scorso ha accompagnato la notizia della morte del novantasettenne ebreo nato in Alessandria d’Egitto: editore e collezionista d'arte - anche quadri di Evola! - in un tempo di insopportabile osservanza stalinista

Immaginatevi un ebreo trockista poco più che trentenne, che a Milano ha una casa editrice e una galleria d’arte, il quale arriva a Roma nei primi anni Cinquanta e sale al quinto piano di una casa dove una famiglia ardentemente fascista ospitava fin dall’immediato dopoguerra il bardo di un’eventuale riscossa ideale del fascismo, il poco più che cinquantenne Julius Evola, un uomo impossibilitato a muoversi perché le bombe alleate su Vienna della primavera del 1945 gli avevano lesionato la spina dorsale. L’ebreo trockista di nome Arturo Schwarz vede alle pareti alcuni di quel centinaio di quadri dadaisti che Evola aveva dipinto fra il 1919 e il 1921 e glieli compra, consentendo tuttavia a Evola di farne delle copie che in quella casa gli avrebbero tenuto compagnia fino alla sua morte, l’11 giugno 1974. Quando negli ultimi momenti del suo vivere quelli che frequentavano casa Evola e che gli erano particolarmente devoti, lo sorressero per le braccia fino a farlo arrivare alla finestra di quell’appartamento da cui si intravedevano spicchi del cielo romano.

Sono restato stupito del silenzio che il giugno scorso ha accompagnato la notizia della morte di Arturo Schwarz, il novantasettenne ebreo nato in Alessandria d’Egitto nel 1921 che nell’Italia del secondo dopoguerra s’era fatto valere da gallerista d’arte moderna a Milano, da editore, da collezionista fra i più importanti al mondo del dadaismo, da scrittore anche. Devo al caso che nei miei vent’anni l’agente rateale della Einaudi vendesse anche i libri delle edizioni Schwarz e dunque i libri firmati da Leone Trockij. Imparai presto come il comunismo reale sovietico e le sue propaggini fossero stati una tragedia del Novecento. Nell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, dove l’italocomunismo di osservanza filosovietica dominava il campo a sinistra, non doveva essere stato facile per Schwarz fare il trockista a pieno tempo. E poi c’era quella sua passione onnivora per il dadaismo francese, dei cui libri e dei cui quadri era stato un collezionista vorace, una collezione che negli ultimi anni della sua vita lui ha versato allo Stato d’Israele come a voler confermare che di tutte le sue particolarità quella d’esser ebreo era la più importante, un ebreo beninteso ateo. Era stato curato a puntino da Schwarz il libro edito in Italia nel 1976 (Almanacco Dada, Feltrinelli) che il dadaismo europeo lo raccontava giorno per giorno e libro per libro, e dove il nome e le opere di Evola vi figuravano più e più volte.

Quanto ai libri scritti da Schwarz, ho in mente il suo Breton e Trotzsky. Storia di un’amicizia, pubblicato in prima edizione nel 1974 dalla Savelli. In quel libro c’è una chicca imperdibile. La lettera aperta, pubblicata in Francia nel 1950 da “Combat”, che Breton aveva inviato a un suo compagno di avventure surrealiste tra le due guerre, il poeta Paul Éluard. Che cos’era successo? Che i comunisti cecoslovacchi avessero preso il potere nel febbraio 1948, e di quel potere non volessero dividere con gli altri partiti pur di sinistra nemmeno un’oncia. Spalleggiati dai carri armati sovietici che potevano piombare in Cecoslovacchia da un momento all’altro, in fatto di crimini stavano marciando alla grande. Processi senza alcun fondamento contro i loro avversari politici, confessioni estorte con la tortura, condanne a morte, un manto di orrore avvolgeva Praga, una delle città più belle al mondo.

Quando erano entrambi nel pieno della loro avventura surrealista, nel 1938, Breton ed Éluard erano stati invitati entrambi a Praga dove avevano avuto per interlocutore e sodale un intellettuale cecoslovacco di vaglia, Zavis Kalandra (nato nel 1902), con cui avevano condiviso pensieri, poesie amate, cene nei bar di Praga. In quel 1950 in cui Breton invia la sua lettera a Éluard era successo che i comunisti al governo in Cecoslovacchia avessero arrestato tacciandolo di trockismo Kalandra (uno che da militante antinazista aveva espiato sei anni fra cella e campi di concentramento), gli avessero fatto confessare sotto tortura di star tramando contro di loro e lo avessero condannato a morte per impiccagione. Da tutta Europa arrivarono le suppliche di personalità di gran risalto, da Albert Einstein a Winston Churchill, che chiedevano clemenza per Kalandra e altri condannati a morte. Laddove un Éluard in quel momento istupidito dalla retorica comunista dei “domani che cantano”, si rifiutava di chiedere clemenza per un uomo della cui colpevolezza lui non aveva dubbi. Stupito di quell’atteggiamento, Breton gli si rivolge con quella lettera indimenticabile, che non sfuggì a Milan Kundera, lo scrittore cecoslovacco esule a Parigi che ne raccontò a suo modo nel suo libro del 1975, Il libro del riso e dell’oblio, quello a causa del quale gli venne tolta la cittadinanza cecoslovacca. 

Alla mattina del 27 giugno 1950 Kalandra (sarebbe stato completamente riabilitato 18 anni dopo) venne impiccato assieme ad altri tre suoi coaccusati, una dei quali personaggio anch’esso di immane lucentezza umana e politica, Milada Horáková, figura di punta di una sorta di partito socialista cecoslovacco dell’epoca, la sola donna mai giustiziata dai comunisti cecoslovacchi. Quarantottenne, minuta, pesanti occhiali sul volto, una che aveva militato nella Resistenza e che i nazi avevano condannato a 8 anni di prigione, esistono le foto di lei che depone in tribunale il 7 giugno 1950. Impiccarono anche lei il 27 giugno 1950, un giorno che per i cecoslovacchi di oggi è divenuto “il giorno della memoria” dopo che la Horáková e i suoi compagni sono stati tutti riabilitati. Chi in questa storia di pura criminalità vi appare il più lercio di tutti? La giovane procuratrice ipercomunista che durante il processo si accanì contro la Horáková e che scoppiò a ridere quanto pronunziarono la sentenza di morte? No, a me il più lercio in quella tragedia appare il comunista parigino Paul Éluard.