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Uffa!

La resurrezione italiana del secondo dopoguerra. Quando passò ’a nuttata

Giampiero Mughini

Il nuovo libro di Alfio Caruso e altre memorie

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A prima vista non c’era da scommettere un dollaro sui destini dell’Italia dell’immediato secondo dopoguerra. ’A nuttata era tutt’altro che finita al momento in cui le armi avevano taciuto. Lo narra mirabilmente (“Così ricostruimmo l’Italia. 1945-1959”, Neri Pozza Editore, 2020) il giornalista/scrittore Alfio Caruso, da anni infaticabile nell’eruttare libri di storia italiana che da ogni riga grondano intelligenza dei fatti e dei protagonisti raccontati. 

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A prima vista non c’era da scommettere un dollaro sui destini dell’Italia dell’immediato secondo dopoguerra. ’A nuttata era tutt’altro che finita al momento in cui le armi avevano taciuto. Lo narra mirabilmente (“Così ricostruimmo l’Italia. 1945-1959”, Neri Pozza Editore, 2020) il giornalista/scrittore Alfio Caruso, da anni infaticabile nell’eruttare libri di storia italiana che da ogni riga grondano intelligenza dei fatti e dei protagonisti raccontati. 

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Rispetto all’anteguerra i mezzi di trasporto ferroviario erano ridotti a un sesto, la flotta mercantile a un decimo. La distruzione di ponti e viadotti faceva sì che ci volessero sette ore per andare da Roma a Napoli, l’unico treno da Torino a Roma impiegava 36 ore. A Milano occorrerebbero 460 mila nuovi vani per farci campare le persone che ci abitano. Rispetto al 1938 il costo della vita era aumentato di venti volte, l’effettiva svalutazione della lira rasentava il 95 per cento. Ancora nei primissimi Cinquanta una famiglia italiana su tredici non consumava neppure una volta l’anno vino e carne. Nell’immediato dopoguerra il governo italiano è sovrano soltanto su 36 province, le altre sono ancora sotto la tutela dell’Allied Military Government of Occupied Territories. Dalle parti di Trieste i militari titini hanno occupato porzioni importanti del territorio della nostra patria, hanno massacrato e infoibato cittadini italiani e questo mentre il Pci non ha nulla in contrario a che Trieste passi sotto l’ala dei “compagni” jugoslavi. Dalle parti di Palermo, i “separatisti” guidati da un furbo mestatore quale il massone Andrea Finocchiaro Aprile minacciano di proclamarsi indipendenti dal resto d’Italia e forti di questo ricatto otterranno uno statuto speciale impudentemente favorevole. 

  
Dilaniante è poi il conflitto tra i monarchici e i repubblicani sino al referendum del 2 giugno 1946, dove la vittoria dei repubblicani è netta non fosse che nelle strade delle città italiane le due contrapposte fazioni si scontrano a sangue e ne nascerebbe una seconda guerra civile se il Luogotenente Umberto (succeduto al padre che aveva abdicato) non scegliesse alle 15 del 13 giugno di accomiatarsi dal personale civile e militare del Quirinale e di raggiungere l’aeroporto di Ciampino con la moglie e i quattro figli. E a non dire che all’indomani dell’attentato a Palmiro Togliatti (14 luglio 1948), cui un nullafacente di destra ha sparato quattro colpi con una pistola comprata con i soldi inviatigli dai genitori per campare, è di nuovo furibondo lo scontro tra forze dell’ordine e rivoltosi comunisti, 9 morti e 120 feriti tra i primi e 7 morti e 86 feriti fra i secondi. Ebbene, sono questi gli antefatti del “miracolo” più grande della storia italiana recente, di una resurrezione economica e civile che nello spazio di vent’anni farà dell’Italia una democrazia industriale di punta dell’Occidente. Quanto a risultati tangibili altro che la “Rivoluzione d’Ottobre” del 1917 in Russia. 

 
Una resurrezione di cui sono stato testimone oculare per quel che è delle vicende della mia famiglia, dove i miei genitori a Catania si separarono nel 1948, quando avevo sette anni. Presi a vivere con i nonni materni, di tanto in tanto andavo da mio padre a chiedergli di che comprare un quaderno di scuola perché mia madre quei soldi non li aveva. Papà che era stato fascista e perciò s’era dimesso da funzionario di una ditta di camion affiliata alla Fiat, faceva adesso il ragioniere di uno che era stato un camionista di quella ditta. Me lo ricordo chino sui libri mastri in uno scantinato quanto di più angusto. Poco tempo dopo aprì uno studio da commercialista; a quel tempo mi dava una ”paghetta” da seimila lire al mese. Nei primissimi anni Sessanta, una volta che ero a pranzo da lui mi comunicò che la “paghetta” la innalzava alla bellezza di trentamila lire al mese. Se non è un “miracolo” economico questo, altro che la Rivoluzione d’Ottobre. Ecco perché ai miei occhi il libro di Caruso è particolarmente toccante. Racconta l’epica della gente italiana del dopoguerra, gente ripartita da zero e che ci ha dato sotto allo stremo, mio padre uno di loro. Un animus che vorremmo tanto l’Italia ritrovasse nell’arduo tempo del post pandemia.

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Quella che riparte tra ultimi Quaranta e primissimi Cinquanta è un’Italia zeppa di protagonisti d’eccezione. Luigi Einaudi presidente della Repubblica, Enrico Mattei capo dell’Agip da cui trarre la materia prima di che produrre e crescere, Raffaele Mattioli capo di quella Banca Commerciale che deve scegliere a chi imprestare i pochi soldi che ci sono nell’Italia del tempo, Vittorio Valletta cui i partigiani comunisti gliela volevano far pagare e che fece dell’industria automobilistica l’asse portante dell’economia italiana, Palmiro Togliatti capo del più importante e vitale partito comunista d’Europa, Giuseppe Saragat capo dei socialisti democratici che volevano avere niente a che spartire con gli stalinisti e con gli stalinismi, Enrico Cuccia l’arbitro e “consigliori” dell’intera economia del paese, Alcide De Gasperi il cattolico laico che per primo conferisce all’Italia la sua identità democratica novecentesca. 
Nel 1948 la Democrazia cristiana stravince le elezioni politiche, ed è una cosa buonissima dato che in campo non c’era un’altra forza al tempo stesso popolare, democratica e occidentalista. Poco dopo l’Italia riesce a farsi ammettere nella Nato, ed è una cosa buonissima ravvicinarsi a un’Europa coesa e protetta da quegli stessi soldati americani sbarcati in Sicilia, ad Anzio e in Normandia pur di cacciar via i nazi. E’ una buonissima cosa, alla faccia dei quaresimalisti di ogni tipo, che a partire dai primi anni Cinquanta vengano prodotti in gran copia in Italia ed entrino nella vita quotidiana di milioni di famiglie dei beni che vengono comprati a forza di rate, la Lambretta, il frigidaire, i ventilatori, i mobili a poco prezzo detti “svedesi”, l’auto di piccola cilindrata con cui andare scoprendo le bellezze dello stivale, non ancora i televisori in bianco e nero che al loro prezzo iniziale di 250 mila lire cadauno (circa 3.800 euro odierni) erano al momento irraggiungibili dal ceto medio: mia madre e io andavamo dagli zii “ricchi” a vedere Mike Bongiorno. E’ invece una pessima cosa quanto sia resistente in Italia il fondo melmoso della sensibilità dominante nei Cinquanta, dove il clericalismo e il bigottismo la fanno da padroni, tanto che vanno in galera giornalisti quali Renzo Renzi e Guido Aristarco ma anche la “dama bianca” di cui Fausto Coppi si era invaghito dopo il suo primo matrimonio. Ci vorranno vent’anni perché quella sensibilità smetta la sua prepotenza. Epperò c’è che il prodotto interno lordo aumenta del 5,3 per cento nel 1958, del 6,6 per cento nel 1959, dell’8,3 per cento nel 1960. Alla lira viene assegnato l’Oscar tra tutte le valute mondiali. Me lo ricordo perfettamente, era come se ogni giorno arrivasse qualcosa in più, un bene in più di cui disporre. ’A nuttata era finita.

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