Terrazzo

Citofonare Agnelli. Il mondo estetico (e le case) dell'Avvocato

Michele Masneri

Roma, Torino, New York e la Corsica. Perché l'Avvocato non è stato solo il padrone della Fiat ma un irripetibile committente di case 

Insomma oggi è il fatale anniversario, vent’anni dalla morte dell’Avvocato, e se qualcuno tentò, Istat alla mano, di capire se la Fiat alla fine era un peso o un asset per il paese, se avesse più dato o più ricevuto, sarebbe ora di fare  un bilancio anche estetico.  Gianni Agnelli fu infatti soprattutto una straordinario testimonial del gusto. E se copiarlo sull’abito, con un paese innamoratosi improvvisamente dei gessati di flanella, degli stivaletti Tod’s e degli orologi sul polsino, era relativamente facile, sulle case crollavano tutti, anche i più liquidi. Lui e la moglie sono stati, infatti, committenti che hanno “impattato” come usa dire oggi, più di vari superbonus. Le migliori maestranze, gli architetti più promettenti, i galleristi più globali nella “messa a terra” di una serie di dimore irripetibili. 


Ecco una mostra che si visiterebbe volentieri, le case Agnelli (però gli eredi, soprattutto Margherita cui sono andate molte case e molta arte, sembrano più affaccendati in altre questioni). Partendo da Corso Matteotti a Torino, con il suo servizio giornaliero di lavanderia, “i tasti da premere per avere all’istante il personale in livrea”, come ricordava un affascinato Truman Capote su Vogue 1964. Nella stessa stanza, un Bacon, un Henry Moore e un Nolde; e in un altro salone, un Renoir  tra due fagiani di porcellana “epoca Quianlong”. Le opere che non ci stanno nel vecchio palazzo di “Vestivamo alla marinara” finiscono a villa Bona, commissionata nel ‘61, con piscina riscaldata che comincia dal giardino e finisce in salotto, un po’ Hollywood Party; e poi il tavolo di Eero Saarinen e le sue sedie e tutto il salotto buono Barcelona di Mies van der Rohe. Villa Bona, che sarà  dimora del povero Edoardo, non deve stupire, Torino è città di sperimentazioni, come si è detto Franco Debenedetti che sarà per un po’ manager alla Fiat sotto e anche dopo la reggenza del fratello commissiona case ai radical designer scatenati del Piper nella Torre Littoria. E poi a “Ettorino” Sottsass. Il povero Giorgio Agnelli, pezzo mancante della famiglia, che secondo la leggenda avrebbe anche sparato al giovane fratello Gianni, poi finito epurato dalle memorie di famiglia, aveva per sé una palestra non Technogym ma disegnata appunto dal giovane Ettorino. 


A Roma, invece,  fatale palazzo Carandini-Albertini di fronte al Quirinale, con vista clamorosa sulla città eterna (avrebbe dovuto essere ancora più clamorosa se Mussolini, per fare un dispetto al casato antifascista, non avesse chiesto all’immaginifico architetto Brasini di issare un torrione dell’Inail, che ancora sta lì come uscito da “Mercoledì” di Tim Burton con le sue guglie, per impallargli la vista).  Nel casamento, Suni sopra, Gianni sotto, e sotto ancora il conte archeologo. Nell’appartamento avvocatesco disegnato da Ward Bennett, con soffitti di otto metri e total-travertino, si era studiato un sistema di terrazzi estraibili ma poi si rinunciò. 


E Peter Marino giovanissimo e sconosciuto e non ancora borchiato aiutò con le case newyorchesi (ma Mongiardino sovrintendeva dall’Italia, non amando l’aereo).
Marino aiutò anche il povero Edoardo a sistemare il suo appartamentino a Princeton, dove studiava le religioni. Ma tornando a Roma, dentro, per Gianni, stuoie e modelli delle sue barche e lampade di Isamu Noguchi, e tanti quadri scuri e pelle. Balthus a schiovere. Copriletto di pelle nera, sotto una tela bruciacchiata e lugubre di Jim Dine (a proposito, le barche, piccole, veloci, spartane, niente a che vedere con le cafonate di oggi dove il censo si misura in ettari di vetroresina bianca e luci subacquee e magari  in ‘goppa pure un bel Suv. Orrore).  

 

A Villar Perosa, paranoie invece per una certa piscina che deve assolutamente riflettere i verdi e i grigi delle montagne attorno; si consultano i massimi esperti mondiali, alla fine Gae Aulenti, archistar della Real Casa, decide che l’unico colore possibile per questa rifrazione è l’arancio. Però dall’elicottero ci si accorge con shock che la piscina di quel colore sembra una grande carota, e l’Avvocato è fuori di sé; salvo poi riconoscere, una volta riempita, che con l’acqua effettivamente il riflesso è verde-grigio. A Saint Moritz, donna Marella vuole tutto “secessionismo viennese” e rastrella tutti gli Schiele sul mercato tra Vienna e Salisburgo, e procede coi tovagliati in tinta.

 

Marella è anche responsabile della diffusione del midollino nelle migliori case italiane. Complemento fondamentale, che aggiunge quel tocco Caracciolo-country e toglie l'effetto “casa di ricchi”. E poi la Corsica, col convento di Alziprato, forse la casa più amata e dunque tenuta più segreta. L’Avvocato ripeteva citando forse Napoleone stesso che “la Corse est l’'île ou tout est plus beau que ailleurs”. Però alla fine, cosa  rimane di tutto questo ben di Dio? Alberto Arbasino notava che tutta la ricerca estetica dell’Avvocato tra flanelle e scarponcini e  Balthus non si traduceva però in automobili di uguale sciccheria. Ma forse sarebbe stato peggio l’opposto.

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).