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Terrazzo

Riscoprire Ponti a tavolino

Enrico Ratto

"Non un libro per gli architetti, ma per gli incantati dall'architettura". Il nuovo libro di Quodlibet è una collezione di idee dove confluiscono i pensieri del designer milanese: l'architettura moderna diventa autonoma e assume un rapporto più intimo 

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Nulla contro i coffee table book che si scelgono al peso, fino a quando non ti capita tra le mani il piccolo libro di Gio Ponti “Amate l’architettura” appena ripubblicato da Quodlibet, il cui criterio di scelta è senz’altro il peso specifico. Le pagine sono trecento, non poche, ma sarà la frammentazione dei contenuti che sono spesso appunti modificati nel tempo, sarà la dimensione intima di questi pensieri, eppure questo sembra un piccolo volume molto denso, da consultare perché contiene chiarimenti necessari.

 
Anche per questo libro, l’editore ha scelto di riprendere l’impianto grafico originale della prima edizione del 1957, così come era già successo per “Costruire in Francia” di Sigfried Giedion o “Giuseppe Terragni: trasformazioni, scomposizioni, critiche” di Peter Eisenman con la grafica originale di Massimo Vignelli. “Si tratta di piccole architetture che devono essere rispettate” spiegano dalla casa editrice, ed è vero in quanto il libro non è solo un fatto di contenuti, ma c’è una struttura – a partire dalla copertina, dello stesso Ponti – e dalla scelta dei colori della carta in cui sono suddivisi i capitoli. Gio Ponti era un grande fan del colore, e il modo in cui il libro è suddiviso è chiaramente in continuità con il suo modo di progettare, sin dai suoi lavori con le ceramiche (Ginori), nell’utilizzo del vetro, delle stoffe, negli interventi per gli ingressi degli edifici.

 
Questo è un libro che nasce nel 1945 con il capitolo centrale “L’Architettura è un cristallo”, poi è stato ampliato e rivisto fino all’edizione del ’54. C’è quindi molto interesse per i cambiamenti che il moderno ha introdotto nel modo di fare architettura e nella sua influenza sulla società. “Architettura moderna si fa autonoma, si fa disciplina indipendente, smette l’antico rapporto, individuale ed esteriore, Committente- Architetto, e assume quello sociale, più intimo, Architettura- Destinazione” scrive Ponti. “Gli architetti moderni, per esempio, quando fecero la nuova stazione di Firenze, non hanno fatto la prima stazione moderna italiana sui ‘precedenti’ o sulle ‘ispirazioni’ delle Ferrovie dello Stato: essi hanno seguito una loro politica; hanno detto: una stazione dev’essere così”.

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Appunti e chiarimenti, dicevamo. E molte risposte alle domande che a qualcuno capita di porre agli architetti senza però avere una risposta chiara: perché si fa buona architettura a sessantacinque e non a venticinque anni? Leggete qui. “L’architettura: arte per maturazione, e non per rivelazione. Non esistono enfants prodiges nell’architettura: non esistono architetti precoci; nessun Mozart nell’Architettura”. E’ per maturazione, non per rivelazione che l’architetto si avvicina alla purezza, a quel punto in cui nulla si può togliere, e nulla si deve aggiungere. Allo stesso modo, con lo stesso tempo (che non vuol dire solo esperienza, sarebbe riduttivo), chi progetta acquisisce la consapevolezza di avvicinarsi a quello che, in fotografia, per Capa era il “leggermente fuori fuoco”, il non perfetto che suscita interesse. Scrive Gio Ponti di averlo imparato con Adolf Loos “un piede e una gamba di una sedia e di un mobile debbono essere sempre un po’ ‘troppo sottili’, una guglia sempre un po’ ‘troppo alta’, un ponte sempre un po’ ‘troppo teso’”. L’architettura, per l’architetto, dev’essere una sfida, una sfida semplice.

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