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Terrazzo

Ottant’anni di Osservatorio astrofisico ad Asiago

Manuel Orazi


 

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L’amore fascista per gli anniversari non si è mai fermato, nemmeno in piena guerra mondiale. 1942, anno XX del governo Mussolini, ma anche trecentesimo dalla morte di Galileo Galilei che trascorse allo Studio di Padova “li diciotto anni migliori di tutta la mia età”. Il regime e in particolare la Regia Università patavina – allora in pieno fervore edilizio con il nuovo rettorato di Gio Ponti e non solo – inaugura l’Osservatorio astrofisico di Asiago che dall’alto domina la pianura veneta. L’osservatorio consiste di due corpi di fabbrica, uno tondo coperto da una cupola apribile e uno più monumentale curvo che ospita gli uffici e le abitazioni dei ricercatori, entrambi in pietra locale, disposti con una sottile attenzione paesaggistica e formale (la cupola rappresenta il centro del cerchio seguito in pianta dall’altro fabbricato).

 

Il clima patriottico della cerimonia è rinvigorito dalla memoria viva della Prima guerra mondiale, durante la quale Asiago era stata rasa al suolo e perciò è circondata da monumenti ai caduti sull’altopiano come quello illustre a Roberto Sarfatti, figlio di Margherita, realizzato sette anni prima da Giuseppe Terragni, da poco partito per il fronte russo. Di questo però nel 1942 non si poteva parlare più perché le leggi razziali avevano cancellato i nomi degli ebrei da tutti i registri professionali. Persino la Sarfatti, che fino a pochi anni prima era stata una sorta di “regina senza corona”, è costretta a riparare in Uruguay e Argentina, mentre il progettista anonimo dell’Osservatorio è già in Brasile da circa tre anni. Si tratta di Daniele Calabi, ingegnere e architetto già autore di alcuni edifici pubblici degni di nota (Ponti nel 1938 loda su “Domus” la sua colonia estiva al Lido di Venezia), fra i quali diverse case del fascio in alcuni piccoli comuni della provincia padovana e vari progetti per l’ufficio tecnico universitario.

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Calabi cerca un altro lavoro, per lui il rettore del Bo Carlo Anti scrive lettere di raccomandazione al Conte Vittorio Cini e a due potenti professori romani, Arnaldo Foschini e Marcello Piacentini impegnati nell’E42, “a parte la razza, è un giovane di grande qualità” sottolinea, tutti però declinano. Calabi allora s’imbarca per San Paolo dove un cugino gli dà lavoro in una ditta di costruzioni perché neanche lì può firmare, il regime di Getúlio Vargas non agevola l’integrazione degli immigrati da paesi dell’Asse. Ciononostante riesce a lavorare, a sposarsi, fare tre figli e a frequentare una sfavillante cerchia di architetti modernisti che si erano rifugiati nella città paulista per motivi diversi: l’ucraino Gregori Warchavchik, il boemo Bernard Rudofsky (già attivo a Napoli), il polacco Lucian Korngold, Rino Levi (unico autoctono, ex studente di Piacentini) e infine, dal 1946, Lina Bo col marito Pier Maria Bardi e Giancarlo Palanti. Appena può, Calabi però nel 1948 torna in Italia dove riprende la sua carriera anche come professore all’Iuav di Venezia. Ottant’anni dopo l’inaugurazione, è stata scoperta una targa sull’Osservatorio che gli riconosce finalmente la paternità del progetto.
 

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