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Terrazzo

E' un successo il Supersalone della rinascita milanese

Michele Masneri

Sei anni dopo l'Expo, allestimento e party riflessivi. L'emirato di Boeri. Vuoi vedere che i milanesi col Covid sono diventati pure autoironici?

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“Bentornata design week!” urla una voce con accento ultramilanese negli altoparlanti della metropolitana per la prima volta senza distanziatori, e sembra uno scherzo, sembra il milanese imbruttito, e però, in questo stranissimo Salone anzi Supersalone, ancora estivo, quasi agostano, col caldo, sembra un grido disperato, Milano ha deciso che tutto deve tornare com’era. Anche con trenta gradi. Anche se è settembre e non aprile. 

 

Non si fa a tempo a uscire dalla stazione che già blogger e instagrammatori e semplici mangioni si affollano al nuovo Mercato centrale per sbafamenti d’alta gamma prima di prendere il treno. Ma poi è la Triennale l’epicentro di tutto: lì non solo nuove mostre (una elegantissima su Carlo Mollino, con specchi sotto tavoli e poltrone per far risaltare le nudità dei mobili) e una dedicata ai Saloni, per ricordarsi sempre l’estrema quantità d’energia e inventiva anche psichica che la città investe in questo rito che compie 60 anni. Esposto, anche, il magnifico Bagonghi, omino-mascotte disegnato da Ontani e voluto da Italo Rota quando fu effimero assessore alla Cultura, un ometto che incarna tutte le pazzie del milanese, col panettone e la merda d’artista in testa, e la barba di Leonardo: ai tempi, vituperatissimo. Vuoi vedere che i milanesi col Covid hanno ritirato fuori la vecchia vena autoironica, sommersa dalla übris degli anni Quindici?

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Di sicuro sono meno isterici, in Triennale si organizza il grande party di apertura anzi riapertura, che è il correlativo di quell’ultimo della Milano arrembante sempre qui, per l'ultimo Salone dell'èra normale, del '19: che differenza, allora era in maschera, Toiletpaper, sponsorizzatissimo, paparazzatissimo, con valletti che annunciavano il tuo nome, danze e balli fino all’alba, invece oggi garden party riflessivo, si mangia poco, poi concertino nazional-popolare di Marco Mengoni tra le sculture acquatiche di De Chirico, poi visita notturna alle mostre, e a letto presto. 

 

Ci sono tutti (non proprio tutti, perché tanti, in questo Salone ancora estivo, stanno ancora al mare, altri a Venezia al festival del Cinema. Alcuni vanno e vengono da Dubai, dall’Expo, ma chi ci deve stare ci sta). Anche Beppe Sala, un po’ in disparte, perché la scena è tutta per lui, per Stefano Boeri, qui officiante, padrone di casa, ideologo di questo Salone fuori tempo che deve ristabilire l’orgoglio milanese devastato dopo le pestilenze. Parla, stringe mani, presenta. Prima il passo falso delle Primule, poi si è preso il Covid, pure brutto, ma tutto è già alle spalle: è highlander. Qualcuno scherza: gli offriranno il comune per il centrodestra. Ma perché mai, ormai il suo ruolo è ben più importante, è l’emiro dell’emirato di Milano. Altro che Dubai. Ha scommesso molto, e ha vinto. Il salone sta funzionando, la gente c'è, si vede, e non era mica scontato.

 

Soprattutto il “vero” Salone, cioè la fiera, e tornare, il giorno dopo, a Rho, fa impressione. L’ultima volta che ci si era stati era il ’15, e un’altra volta Milano risorgeva dalle ceneri, con l’Expo contro cui tutti remavano contro, e invece ha messo su la Milano del nuovo boom. Mattarella presenzia, e parla fuori protocollo, sembra un altro presagio positivo. Adesso al vero Salone, cioè, in fiera, si torna, anzi in tanti si va per la prima volta. Fa caldo come allora, sembra davvero un "dove eravamo rimasti", e tutti dicono “è molto diverso dalle scorse edizioni”, poi però non sanno spiegare come, perché in realtà nessuno ci andava mai, in fiera andavi solo se eri mobiliere o feticista dei mobilieri. Comunque, una nicchia.

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Invece adesso è una piacevole gita per tutti, gita di settembre e non d'aprile, gli stand sono ariosi e semplici, non c’è l’albero della vita ma arbusti dappertutto (c’è anche una cucina con un albero in mezzo, conficcato tra il lavello e il gas, non sembra molto pratico. Ovviamente disegnata da Boeri). Stand di legno, tutto riciclato e riciclabile, dice l’Ad della Fiera Luca Palermo . Manca la grandeur sbruffona dei “concept”, però ci sono i prodotti. E' il sano trionfo della merce, milanesità in purezza.

 

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E i prodotti  cambiano e si aggiornano: grande entusiasmo allo stand della Poldina, la capostipite delle lampade ricaricabili, anonima e "povera", che è per gli anni 2020 quello che la Tizio è stata per gli ‘80 e la Tolomeo per i ‘90. “Siamo stati bloccati per due mesi e poi ripartiti alla grande grazie ai dehors”, dicono, trascinati insomma dalla tavolinizzazione dell’Italia.  Molteni simula invece una antica business class con finestrini à la “Mad Men” per tornare a viaggiare. Tecnogym espone i suoi ritrovati costosissimi ed elegantissimi per le nostre case trasformate in palestra. “Lavorare imparare produrre”, slogan di una mostra sulle sedute,  che potrebbe essere inno milanese, “La solitudine della sedia”, dell’associazione Compasso D’oro. E poi: talk e concerti a tutte le ore, e soprattutto la genialata: un sacco di ristoranti, food court, chef e panettieri stellatissimi, da Cracco in su o in giù, per rendere appetibile la gita. E Franciacorta Cà del Bosco. Un po’ Expo un po’ Eataly, insomma. Qualche espositore è sorpreso, loro mica lo volevano fare questo salone, tanti vendono comunque online, ma per Milano è il lavacro dopo  la Peste, e i risultati ci sono, oltre trentamila biglietti già venduti,  “sto vedendo clienti che non venivano da anni”, dicono, perché tutti vogliono esserci, toccare, e mangiare.

 

Via da Rho, è tornato il Fuorisalone cioè la miriade di eventi in città, per cui ci si sposta da un posto all’altro, però anche qui son cambiati un po’ l’umore e un po' la geopolitica: il posto più ambito, Alcova, ex ospedale militare e poi convento di suore a Baggio, sgarrupatissimo del genere abbandonico chic, con installazioni le più varie, offre champagne tra i rovi e e le rovine architettoniche.  I pochi romani si sentono dunque perfettamente a casa: mentre tantissimi giovani designer e curatori nordeuropei nei loro colori acidi finalmente son tornati. Poi si va a casa in taxi, dove è sparito il divisorio di plexiglas, altro segno beneaugurante, oppure  in metro non più distanziati, con l’urlo “venite a visitare la Design Week”, ma al Salone anzi Supersalone giurano, “dobbiamo abbassare il volume, sì, lo abbasseremo”.

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