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terrazzo

Kahn l'immortale

Michele Masneri

Archistar di nicchia fino ai cinquant’anni, poi la gloria. Morto in un bagno pubblico a New York, affascinava colleghi e first lady. Il soggiorno a Roma

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Continua a fare miracoli pure dall’aldilà. E’ bastata una raccolta firme internazionale per bloccare con sdegno unanime nel globo la demolizione di una delle opere più celebri di Louis I. Kahn, archistar novecentesca morta quarant’anni fa in odore di mistero e di glamour.

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Continua a fare miracoli pure dall’aldilà. E’ bastata una raccolta firme internazionale per bloccare con sdegno unanime nel globo la demolizione di una delle opere più celebri di Louis I. Kahn, archistar novecentesca morta quarant’anni fa in odore di mistero e di glamour.

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Archistar di nicchia, Kahn assurse alla celebrità in un’epoca che non era ancora il decennio dell’Io, tantomeno dell’Instagram, dunque rimase fenomeno da addetti ai lavori, addetti che oggi lo venerano più di chiunque altro. Nato nell’Estonia russa nel 1901, Louis Isadore Kahn arrivò in battello a Philadelphia e non se ne andò più. Ciò che lo rende ancor più interessante è che fino ai cinquant’anni visse una beata vita di serie B; professionista locale e provinciale, mediocre di successo, provò a inserirsi nel boom del dopoguerra e dell’international style, senza riuscirci.

 

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Nel film “My architect”, primo del genere figli-di-architetti (seguiranno Gehry,) l’erede Nathaniel intervistò urbanisti e archistar (tra cui Gehry che declama il suo debito culturale immane nei confronti di  Kahn) ma anche amministratori locali. “Abbiamo provato a coinvolgerlo nel piano regolatore di Philadelphia”, dice uno. “C’era un mondo da ricostruire”, sullo sfondo di grattacieli tutti uguali di uno delle centinaia di downtown americane. “Ma lui se ne venne fuori con dei progetti di torri di pietra, e pedonalizzazione”. Erano gli anni Sessanta, boom e tutto, le città americane si stavano trasformando in quegli ammassi di grattacieli identici, e “pedonale”, in America, era parola più sinistra che “pedofilo”.

 

Il fatto è che Kahn aveva già fatto il suo viaggio che gli cambiò la vita e lo portò in serie A: arriva a Roma nel 1950, sale sul colle della American Academy al Gianicolo; e, idealmente, non ne scenderà mai più. Tra Roma la Grecia l’Egitto e il Mediterraneo capisce che non sono le smilze figurette alla Philip Johnson o Richard Neutra a interessarlo e ispirarlo, bensì un gigantismo monumentale che ritrova tra templi e piramidi. E quella diventerà la sua cifra: “costruire edifici contemporanei che sembrino rovine antiche”, e che dunque invecchiano benissimo, a differenza di quelli di tanti colleghi moderni o post.

 

Come il non più demolendo dormitorio dell’istituto di management a Ahmenabad in India, salvato nel giro di tre giorni a cavallo di Capodanno dalla distruzione con migliaia di firme (pare che non fosse molto funzionale: mentre altri edifici invece sì, come quella che considerava l’opera sua più bella, il Salk Institute for Biological Studies del 1965 a La Jolla, in California, centro medico per l’inventore del primo vaccino antipolio, Jonas Salk, con  vista diversa sul Pacifico per ogni studio). E in un museo, anche, una sala per visitatori stanchi, “perché una delle prime reazioni che arrivano quando entrate in un museo, fateci caso, è la botta di stanchezza che vi viene”.

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Farà pochi edifici, anche perché comincia tardi e morirà presto:  quasi tutti capolavori. La vita privata, anche quella una rovina: tre famiglie parallele, una ufficiale e due segrete, ognuna scopre l’esistenza delle altre al funerale. Anche, un sacco di buffi. Povero era nato e povero è morto. Infanzia stentorea a Philadelphia, ma il bambino Kahn si mantiene disegnando ritratti e suonando il pianoforte nei cinema muti. Quando una ricca signora gli regala un piano, in casa non c’è più spazio per altro e dormono sul piano. L’altro incontro col destino è  a Yale, dove crea due edifici poi leggendari, a inizio e a fine carriera, l’Art center e il Center for British art: l’ateneo cercava di assoldare Niemeyer, ma il brasiliano non era gradito in America perché troppo comunista; dunque Kahn spadroneggerà nell’araldica università.

 

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Pare che fosse affascinantissimo – Philip Johnson, nel documentario (che ebbe la nomination agli Oscar), dice che a differenza delle altre archistar era molto simpatico. Jackie Kennedy lo incontrò per fargli fare la Kennedy library in memoria del marito e fu sconvolta dal disordine del suo studio, dalle cicche di sigaretta ovunque, così la biblioteca la fece I.M. Pei. Però poi lei diede a intendere che con Kahn avrebbe fatto cose più interessanti di una biblioteca.

 

Pensare che lui era piccolo, con una vocetta stridula, sfregiato da una cicatrice in faccia di un incendio remoto. Sbadato, assorto, perennemente col suo papillon, disse alla vedova presidenziale, all’epoca della visita a studio: “Mi scusi, ci dev’essere un incendio”, sentendo un gran trambusto di sirene attorno allo studio. “Non si preoccupi, succede spesso quando ci sono io”, ribadì la Kennedy.

 

Ebbe rapida e definitiva celebrità, confermata dal massimo status symbol dell’epoca: le commesse delle “new town” in giro per il mondo decolonizzato avviato verso rosei destini indipendenti (farà Dacca, in Bangladesh,  mentre Le Corbusier si esprime a Chandigar in India, e Niemeyer a Brasilia).

 

Morì poi bizzarramente in un gabinetto della Penn Station di New York nel 1974, e la polizia per giorni non riuscì a identificare il cadavere di quell’infartuato con papillon; aveva infatti cancellato l’indirizzo di casa dai documenti, forse perché inseguito dalle famiglie clandestine, o forse dai creditori: lasciò debiti per mezzo milione di dollari. Oltre, naturalmente, la gloria imperitura.

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