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Un dolore normale

Lo stile deve qualcosa al realismo sociale dei vari Hopper e Thomas Eakins, Winslow Homer e Paul Cadmus

Michele Masneri

“Toulouse-Lautrec” della Grande Mela,  Angus ritraeva  senza angoscia una New York notturna. Dimenticato per anni, ora la riscoperta, e le mostre 

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Un Google Maps analogico e pittorico della New York anni Ottanta trasgressiva meno vista: è questo il lascito di Patrick Angus (1953–1992), pittore fino a qualche anno fa sconosciuto ma che adesso esce dall’oscurità con le indagini di Fabio Cherstich, giovane autore e regista teatrale friulano che ne è andato a caccia, dopo essersi imbattuto casualmente nella sua storia.

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Un Google Maps analogico e pittorico della New York anni Ottanta trasgressiva meno vista: è questo il lascito di Patrick Angus (1953–1992), pittore fino a qualche anno fa sconosciuto ma che adesso esce dall’oscurità con le indagini di Fabio Cherstich, giovane autore e regista teatrale friulano che ne è andato a caccia, dopo essersi imbattuto casualmente nella sua storia.

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“Il mio primo contatto con Angus risale al 2012”, dice Cherstich. “Ero a Parigi e un artista che apprezzo molto, Tomaso De Luca, mi ha fatto vedere un suo lavoro sull’iPhone, e mi sono messo a fare ricerche. Dopo due mesi sono riuscito a entrare in contatto con il Fort Smith Regional Art Museum in Arkansas, museo abbastanza sconosciuto di un paesino sconosciuto che aveva dei lavori di Angus. La curatrice era sorpresissima che qualcuno se ne interessasse. L’aeroporto di questa Port Smith in Arkansas era grande quanto un ufficio postale. C’erano solo due gate, uno per i voli per New York e uno per Dallas. Mi ricordo un’enorme targa celebrativa: ‘l’aeroporto con il bagno più pulito d’America’. Fuori, l’ottantenne Betty, madre dell’artista, stupita, perché in 22 anni nessuno aveva mai chiesto notizie del figlio.

 

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Ma in garage, la scoperta di decine di opere, tra scope e rastrelli, di Angus. Nessuno voleva i suoi quadri: la madre li ha donati al  museo che li ha subito messi in magazzino; ha organizzato anche una mostra in una casa di riposo, dove non ne hanno venduto neanche uno. Certo non doveva essere facile vendere le opere di un artista gay morto di Aids, in Arkansas”.

 

Patrick Angus nasce in California, figlio di questa madre centralinista e di un impiegato pubblico. Cresce a Santa Barbara, studia arte, si imbatte in David Hockney che sarà determinante, ma non sono le piscine di Hollywood che vuole ritrarre, bensì le facce di New York. Le facce dei morenti. Morenti felici, però, e gaudenti, inconsapevoli che la grande epidemia sta per arrivare. “A differenza di altri, Angus non parla dell’Aids, ma fa una specie di catalogo dei luoghi, l’ambiente, gli spazi, i night, i locali a luci rosse”, dice Cherstich.

 

A New York Angus era arrivato nel 1980 per la grande retrospettiva di Picasso al MoMa. Nel 1984 vi si stabilisce; comincia a ritrarre facce, facce e persone, nude e vestite, nella città che nessuno ha interesse a immortalare. Non è infatti la città dello Studio 54 ma quella più sotterranea, quella senza paparazzi. “Quella dei locali notturni attorno a Times Square, com’era prima della grande bonifica di Rudy Giuliani”, dice Cherstich. “Non ci sono fotografie di questi luoghi perché erano appunto luoghi della riservatezza, e non c’erano i telefonini né ovviamente Instagram. Lui lascia una specie di grande affresco, dove sullo sfondo di cinema o discoteche basta zoomare sulle facce per vedere questa infinità di ritratti, persone vere che poi infatti si riconoscevano nei suoi quadri”. Lo stile deve qualcosa al realismo sociale dei vari Hopper e Thomas Eakins, Winslow Homer e Paul Cadmus.

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E anche a un altro pittore sconosciuto, Larry Stanton, che anche lui si muove in questo universo notturno: muore proprio nel 1984, quando Angus arriva in città. “E’ soprattutto un ritrattista, e un bellissimo ragazzo” e quasi un simmetrico di Angus: si accompagna a David Hockney che lo porta a Londra e in Italia: lui ritrae ragazzi, facendo anche lui da testimone di quel tempo lì, ma da una diversa prospettiva (“sul retro, i dipinti portano il numero di telefono del soggetto ritratto”). Una specie di Grindr analogico con facce che ricordano molto Elizabeth Peyton. Di Stanton la prima mostra italiana s’è tenuta l’estate scorsa alla lombarda galleria Apalazzo, dove attualmente è in corso una visione online anche di opere di Stanton con  Nathalie du Pasquier).

 

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I lavori di Angus non piacciono a nessuno: nell’America reaganiana che celebra il pop di Warhol e i graffiti di Keith Haring, e che si appresta a piangere l’epidemia, non c’è spazio per il pittore realista che ritrae vite normali di uomini normali nei sotterranei della New York sgangherata ma non troppo. Un mondo di sotto non disperato né glamour. “Angus si aggira per il Village con le sue tele sottobraccio, arrotolate, perché non ha i soldi per comprare i telai”. Non c’è angoscia né denuncia. “I titoli dei suoi lavori sono quelli delle canzoni del momento: Slave to the Rythm o Dancing queen, ulteriore elemento di testimonianza di quel tempo”.

 

Il "Toulouse-Lautrec di Times Square", come lo soprannomina il drammaturgo e suo fan Robert Patrick, fa una specie di catalogo dei luoghi per i posteri, una comédie humaine newyorchese. Angus muore nel 1992, giusto in tempo perché il suo idolo,  Hockney, assista alla sua prima mostra: e gli compra ben sei lavori (ma lui dopo tre mesi è già morto). Adesso, dopo anni di oblio, Angus torna alla luce: “già nel 2014 quando tornai in Arkansas erano già partite mostre a Los Angeles e in Germania. Noi ne abbiamo fatto una prima a Milano nel 2015”, dice Cherstich. La prossima sarà a New York, a gennaio, alla galleria Bortolami: la prima nella città di sopra, che finalmente si accorge di lui (e chissà che gioia soprattutto laggiù, in Arkansas). 

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