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Julia Morgan e Hearst

Hollywood e la sua architetta

Michele Masneri

Il castello degli stili incrociati. Lui editore guerrafondaio, lei architetta femminista. Dietro alla saga di "Mank" c'è Hollywood ma anche l'epopea di Julia Morgan

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Non erano solo cene eleganti. Quello che andava in scena  all’Hearst Castle, lo strambo maniero spagnolesco-giapponese voluto dall’editore che aveva inventato le fake news e che oggi torna protagonista al cinema (anzi alla televisione) con “Mank” era tutto un mondo.

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Non erano solo cene eleganti. Quello che andava in scena  all’Hearst Castle, lo strambo maniero spagnolesco-giapponese voluto dall’editore che aveva inventato le fake news e che oggi torna protagonista al cinema (anzi alla televisione) con “Mank” era tutto un mondo.

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La tenuta, celebre, a San Simeon, tra Los Angeles e San Francisco, trasfigurata già nella Xanadu di  “Quarto potere”, come si sa era il ritiro del facoltoso Hearst, che nel film di David Fincher è interpretato da Charles Dance. Di lì, confusioni, perché Dance fa anche lord Mountbatten in un’altra produzione Netflix, “The Crown”, ma soprattutto perché i saloni dove si svolgono lugubri e sfarzosi i pranzi paiono Windsor o Sandringham. Con alte trabeazioni gotiche, molto legno, camini ciclopici da castelli medievali, però con le più moderne tecnologie (ascensori, idromassaggi, telefoni).

 

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Tutto opera di Julia Morgan (1872-1957), prima architetta donna di California, che per gli Hearst costruì edifici privati e pubblici. E’ curioso che lei, oggi assurta a simbolo di femminismo, icona nella natìa Oakland, patria di Kamala Harris, lavorasse e si trovasse molto bene con questo personaggione, guerrafondaio, corruttore, politico fallito. Ma aveva cominciato con la mamma, la leggendaria Phoebe Apperson Hearst, quella che aveva scorrazzato il piccolo W.R. in giro per l’Europa, a visitare musei e rovine, instillando in lui il germe del collezionismo più colossale e patetico (quel filone di californiani che smontavano castelli nella Loira e se li facevano ricostruire a Napa). Per la signora Hearst la Morgan aveva fatto molti edifici della università di Berkeley, tra cui la piscina – Morgan in qualche modo divenne specialista in piscine: anche se non sapeva nuotare. Celebri le due di Hearst Castle, quella scoperta e quella interna.

 

Nella prima, detta del Nettuno, ci girarono Spartacus, ed è una delle più fotografate del mondo. Quella interna, la Roman pool, tutta a mosaico, vede talvolta sguazzare gli eredi Hearst dell’ancora fiorente impero editoriale (sarebbero da studiare in tutti i manuali di business: hanno sbolognato la proprietà all’Ente Parchi con un accordo geniale per cui vengono quando gli pare, atterrano nell’aeroportino privato, usano i vini della cantina, e se ne vanno. Il sogno di ogni proprietario di queste magioni dispendiose. Le bistecche prodotte nella tenuta vanno invece a Whole Foods).

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La fortuna della Morgan coincise col celeberrimo terremoto del 1906, quello che rase al suolo San Francisco e la Bay Area, e uno dei pochi edifici rimasti in piedi è il  campanile del Mills college, da lei progettato: dopo, dunque, le migliori committenze: con quel suo stile barocchetto-spagnolesco ottenuto mischiando arts and crafts con grandiosità losangeline. Rifà il Fairmont Hotel, il più lussuoso e hitchcockiano degli alberghi, in cima a Pacific Heights, quello preferito da Arbasino e  in cui ha dormito Mattarella nell’ultima visita californiana. E poi fece un centinaio di YWCA, il femminile del YMCA, ostelli per giovani ragazze cattoliche. E un club per sole donne di Berkeley oggi monumento nazionale e boutique hotel detto “the little castle” rispetto al big castle che è quello Hearst.

 

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Morgan era di micidiale riservatezza, quasi certamente lesbica: fece bruciare comunque tutte le sue carte prima di morire. Sopravvivono però tante lettere, sparse per università minori californiane. Da lì vien fuori tutto un rapporto molto interessante con Hearst, vecchio magnate e marpione ormai in disarmo. E se in “Mank” lui organizza tutte queste cerimonie per lanciare la sua fidanzata senza talenti, Marion Davis, forse nella realtà si sarà trovato meglio con la Morgan talentuosissima (siamo di nuovo a Carlo e Camilla?). Tutto li divideva, tranne forse il fondamentale grand tour in Europa (lei, dopo la laurea in ingegneria a Berkeley, era partita per l’Ecole des Beaux Arts a Parigi).  Lui era altissimo, lei piccolina, con bombetta, talvolta. Il carteggio tra i due sembra da innamorati: “ho provveduto a dare istruzioni alla servitù perché puliscano le antichità”; “le rose stanno appena sbocciando, mi dispiace molto che lei non possa vederle”. Lei è anche materna, col vecchio tycoon: che all’inizio voleva costruire solo un piccolo bungalow “alla giapponese”, nella immensa proprietà ereditata dal padre (centomila ettari); poi con gli anni diventa delirante fabbrica. “Farò di tutto per tenere i costi sotto controllo”, gli scrive lei prima di cominciare, nel 1919, come presentendo, o forse avendo capito il soggetto. “Ma come sa, i tempi e le condizioni del luogo sono pieni di incertezze”.  Il palazzo è uno di quelli che sfiniscono entrambi, architetto e committente. Ci sono intere parti non concluse, tipo castelli di Ludwig o San Petronio, perché lui a un certo punto  finisce i soldi, e poi appunto perché muoiono, vicini, uno nel ’51, l’altra nel ’57. Bisognerebbe studiare il carteggio, insomma: e magari, indagando, si scoprirà pure che la “Rosebud”, che non era una slitta, apparteneva non all’attrice ma all’architetta.

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