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terrazzo

Cancellare Philip Johnson

Manuel Orazi

L’ultimo caso di cancel culture tocca il mondo dell’architettura moderna americana. L’accusa a Jonhson è la peggiore: razzista, filonazista, suprematista bianco, antisemita

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L’ultimo caso di cancel culture tocca il mondo dell’architettura moderna americana e a pochi mesi dall’inaugurazione della mostra “Reconstructions: Architecture and Blackness in America” al Museum of Modern Art di New York, dedicata all’architettura delle comunità afroamericane del Paese. Per l’occasione si è costituito un gruppo di studio ad hoc, il “Johnson Study Group”, per l’approfondimento delle malefatte del primo curator della sezione architettura dello stesso museo, nonché in seguito membro del consiglio di amministrazione, nonché donor nonché mille altre cose: insomma Philip Johnson. Colui che ha importato in USA l’International Style, dal nome della mostra del 1932 curata insieme con Henry Russell Hitchcock che divenne subito un brand; l’uomo che convinse un riluttante Ludwig Mies van der Rohe a lasciare la culla del modernismo, la Germania, nel 1937, per diventare preside all’IIT di Chicago. L’accusa dunque è la peggiore: razzista, filonazista, suprematista bianco, antisemita.

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L’ultimo caso di cancel culture tocca il mondo dell’architettura moderna americana e a pochi mesi dall’inaugurazione della mostra “Reconstructions: Architecture and Blackness in America” al Museum of Modern Art di New York, dedicata all’architettura delle comunità afroamericane del Paese. Per l’occasione si è costituito un gruppo di studio ad hoc, il “Johnson Study Group”, per l’approfondimento delle malefatte del primo curator della sezione architettura dello stesso museo, nonché in seguito membro del consiglio di amministrazione, nonché donor nonché mille altre cose: insomma Philip Johnson. Colui che ha importato in USA l’International Style, dal nome della mostra del 1932 curata insieme con Henry Russell Hitchcock che divenne subito un brand; l’uomo che convinse un riluttante Ludwig Mies van der Rohe a lasciare la culla del modernismo, la Germania, nel 1937, per diventare preside all’IIT di Chicago. L’accusa dunque è la peggiore: razzista, filonazista, suprematista bianco, antisemita.

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In effetti Johnson aveva cercato di fondare un partitino di destra in Louisiana, “Youth and Nation”, si era recato in viaggio in Europa e ovviamente anche in Germania, nel 1939 accettò l’invito del ministero della propaganda di Goebbels a seguire le truppe che invadevano la Polonia assistendo da lontano al bombardamento di Varsavia. Tuttavia da quando, al suo ritorno, si iscrisse ad Harvard per ottenere la laurea in architettura – le sue grandi imprese culturali lo avevano distratto – questo innamoramento perverso terminò di colpo, quindi prima ancora dell’entrata in guerra degli USA, e per certificare il suo ravvedimento si arruolò che non aveva nemmeno 30 anni. Johnson, a differenza di altri, non ha mai nascosto i suoi errori, ammettendoli in ogni intervista cui era stato sottoposto, e per tutta la sua chiacchierata carriera si è impegnato nel mecenatismo e anche in cause filantropiche, così come molti miliardari americani. In generale ha sempre cercato di cavarsela dicendo “I’m a whore”, ma certo non ha mai avuto bisogno di essere pagato, semmai il contrario. Quando il padre gli regalò un consistente pacchetto azionario dell’Alcoa (alluminio) lo rese un uomo ricco per sempre.

 

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Michele Costanzo, che gli ha dedicato un documentato libro che è anche una godibile biografia, “Philip C. Johnson e il museo d’arte americano”, Postmediabooks 2015, lo paragona a un personaggio di Francis Scott Fitzgerald del racconto “Rich Boy”. Negli anni ’50 Johnson progetta (gratis) una sinagoga nello stato di New York e persino un centro di ricerca nucleare in Israele, quindi è al fianco di Jane Jacobs nella battaglia per la salvaguardia di alcuni monumenti storici come la Penn Station, minacciati di demolizione. Col passare degli anni si occupa sempre di più d’arte, facendo così le fortune del MoMA, grazie anche al suo compagno di tutta la vita, il gallerista David Whitney: insieme hanno trasformato al loro residenza a New Canaan (quella dove sta la Glass House che ha anticipato la Farnswort House di Mies di alcuni anni) in un museo a cielo aperto frequentato da Andy Wharol e da una schiera di artisti e architetti, che Johnson ha aiutato a muovere i primi passi finanziandone riviste, mostre e imprese, per esempio i New York Five.

 

La mostra che curò insieme con Mark Wigley sempre al MoMA nel 1988, “Deconstructivist Architecture”, è stata quella che ha consacrato quasi tutti i protagonisti di oggi: Gehry, Eisenman, Tschumi, Libeskind, Coop Himmelblau, Hadid, Koolhaas, includendo anche la prima architetta donna, Zaha Hadid. Certo Johnson è stato il contrario dell’architetto engagé o dotato di social concern, e si è ostinato a considerare la sua architettura come un’arte (forse per amore di David). Ma non è neanche vero che tutta la critica fosse supina verso la sua ricchezza e potenza mondana: per esempio Bruno Zevi a un convegno ad Harvard nel 1982 tuonò: “denuncio la presenza di un fascista in questa sala” (ma allora era particolarmente irritato dalla sua adesione al Postmoderno con l’AT&T Building). Resta il fatto che cancellare la memoria, specie al MoMA, del più importante architetto gay del ‘900, è pura follia.

 

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