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La rivalità (che non lo era) con Sottsass

Bonsai milanesi

Michele Masneri

Enzo Mari quasi segreto nel racconto di un altro grande designer, Michele De Lucchi. 

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Michele De Lucchi è nel suo eremo molto manzoniano sul lago Maggiore e lo molesto con uno zoom a proposito di  Enzo Mari, il designer scomparso quasi contemporaneamente alla compagna Lea Vergine, subito dopo l’apertura della grande mostra a lui dedicata alla Triennale di Milano. Appartenenti a due generazioni diverse, e due filoni pure diversissimi: De Lucchi figlio del design radicale, di Sottsass, di Memphis. E celebre per un oggetto, la lampada Tolomeo di Artemide che tutti abbiamo. Mari invece il bastian contrario, che fa scuola a sé, castigatore e ideatore di tanti oggetti anche insospettabili. “Di Memphis non abbiamo mai parlato”, mi dice De Lucchi a proposito di quel movimento che celebrava l’espressionismo e il kitsch più ironico. “Si sarebbe scatenato, credo, l’avrebbe giudicata quasi immorale”, quell’ondata di colore che irrompe con Sottsass e De Lucchi nel design italiano precisino a inaugurare gli anni Ottanta.



Eppure c’è una famosa foto, di Mari e Sottsass che si guardano, di profilo, sembrano due divinità greche, e danno le spalle a tutti gli altri designer milanesi, Magistretti Mendini Branzi. “Non riesco a immaginare due persone più diverse”, dice ancora De Lucchi. “Mari ufficialmente era contro l’architettura radicale. Ciò che non gli piaceva era il manierismo del design, l’ossessione per il segno individuale del progettista, i designer che si vogliono far vedere. Però se ci pensi per certi versi avevano posizioni simili: quando Mari inventa l’autoproduzione, cioè il fai-da-te del design, intendeva che il ruolo del progettista non è essere creativi ma stimolare la creatività delle persone. E in questo era sulle stesse posizioni del radical design”. Mari, inoltre, Sottsass l’immorale, lo teneva nel suo pantheon, “insieme a Marco Zanuso e a Achille Castiglioni: scrisse che erano i maggiori designer della generazione prima della sua”. 

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Michele De Lucchi è nel suo eremo molto manzoniano sul lago Maggiore e lo molesto con uno zoom a proposito di  Enzo Mari, il designer scomparso quasi contemporaneamente alla compagna Lea Vergine, subito dopo l’apertura della grande mostra a lui dedicata alla Triennale di Milano. Appartenenti a due generazioni diverse, e due filoni pure diversissimi: De Lucchi figlio del design radicale, di Sottsass, di Memphis. E celebre per un oggetto, la lampada Tolomeo di Artemide che tutti abbiamo. Mari invece il bastian contrario, che fa scuola a sé, castigatore e ideatore di tanti oggetti anche insospettabili. “Di Memphis non abbiamo mai parlato”, mi dice De Lucchi a proposito di quel movimento che celebrava l’espressionismo e il kitsch più ironico. “Si sarebbe scatenato, credo, l’avrebbe giudicata quasi immorale”, quell’ondata di colore che irrompe con Sottsass e De Lucchi nel design italiano precisino a inaugurare gli anni Ottanta.



Eppure c’è una famosa foto, di Mari e Sottsass che si guardano, di profilo, sembrano due divinità greche, e danno le spalle a tutti gli altri designer milanesi, Magistretti Mendini Branzi. “Non riesco a immaginare due persone più diverse”, dice ancora De Lucchi. “Mari ufficialmente era contro l’architettura radicale. Ciò che non gli piaceva era il manierismo del design, l’ossessione per il segno individuale del progettista, i designer che si vogliono far vedere. Però se ci pensi per certi versi avevano posizioni simili: quando Mari inventa l’autoproduzione, cioè il fai-da-te del design, intendeva che il ruolo del progettista non è essere creativi ma stimolare la creatività delle persone. E in questo era sulle stesse posizioni del radical design”. Mari, inoltre, Sottsass l’immorale, lo teneva nel suo pantheon, “insieme a Marco Zanuso e a Achille Castiglioni: scrisse che erano i maggiori designer della generazione prima della sua”. 

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Un’altra cosa che avevano in comune era la passione per un oggetto modesto, le agende, dice De Lucchi. “Mari per vent’anni ha disegnato quelle che Olivetti regalava a Natale. Ogni anno erano dedicate a un artista diverso. Ma sempre con la stessa grafica e struttura, molto essenziale, molto Enzo Mari: ne ho una decina, naturalmente bianche, perché non osavo scriverci sopra”. L’altra scuola di pensiero era l’agenda autoprodotta, e qui Sottsass scavalca a sinistra pure Mari. “Facendo ritagliare a un suo collaboratore i numeri dai calendari e creando un suo quaderno artigianale. Questa idea m’è sempre piaciuta, e così anche io me le faccio da me. A inizio anno”. Ne mostra una, ed ecco disegni,  e anche qualche quadrifoglio, che salta fuori, raccolto e essiccato.  



Un’altra passione poco conosciuta di Enzo Mari era quella per i bonsai. Ma lungi dal darsi passivamente a quel passatempo per sciure, Mari si era inventato una categoria specifica: i “bonsai milanesi”. “Mi confessò che non sapeva neanche dell’esistenza di questa tecnica, ma semplicemente raccattava delle piantine in giro per Milano, e poi le metteva  in vasetti e lattine sul balcone. Ma siccome crescevano troppo, gli tagliava non solo i rami ma anche le radici. Poi scoprì che era la tecnica del bonsai. Era un lavoro meticolossimo, con le piante che si contorcono, che cercano spazio, che resistono a qualunque cosa. Anche questo molto Enzo Mari. Era molto orgoglioso della sua collezione di bonsai milanesi. Considerava bonsai anche un glicine che spuntava dal piano di sotto, era di un altro inquilino”.  Ma lui bonsaizzava anche quello.



In quella casa, come il glicine, De Lucchi andava senza essere invitato. “Lui non è che ti cercasse. Dovevi presentarti tu, e correre il rischio di chiamarlo, di accettare qualche terribile sfuriata. Ma se scavavi veniva fuori qualcosa di simile alla gentilezza e all’amorevolezza”. A patto di non cadere in una micidiale catalogazione. “Nel suo libro Progetto e passione Mari divide i progettisti in quattro categorie. Ci sono gli spensierati: quelli quasi inconsapevoli delle problematiche progettuali e espressive, sono il 65 per cento. In loro la qualità è inesistente, ma qualche volta ci prendono; poi i professionisti, sono il 30 per cento; hanno buona consapevolezza delle tecniche ma sospettano delle qualità espressive del progetto, ritenute superficiali o intercambiabili; poi gli intellettuali (2 per cento), che mettono in discussione tutto e ritengono la professione un non valore. Infine, 3 per cento, gli opportunisti, che hanno buona preparazione tecnica e umanistica, ma basano ogni scelta sulla domanda centrale del mercato al di là di ogni considerazione di carattere etico. Ecco, questo era Enzo Mari. Se eri inquadrato in uno di questi gruppi eri finito. Ma gli piaceva discutere, anche discussioni accese, qualche volta ci rimanevi male, altre volte no”. Nulla era prevedibile. Come i suoi lavori, “che sono diversissimi tra loro, e questo testimonia la sua attenzione al progetto in generale”. 

 

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I preferiti di De Lucchi però sono gli animaletti, i puzzle, fatti per Danese come i poster, “anche questa un’idea molto innovativa, portare i poster nel campo della produzione industriale. Intuire che il design non è solo prodotto d’uso ma anche prodotto per l’immaginazione”. Il progetto più eversivo è probabilmente uno che pochi conoscono. “Fece anche una scrivania per Hermès, lui, il teorico del rigore”, “Una scrivania lussuosa in legno”,  sorride De Lucchi; e tanti magari la posseggono, senza sapere che è di Mari, e forse questo era proprio il suo progetto,ridere poi di quei ricconi.

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