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A Roma al Palazzo delle Esposizioni

La Quadriennale che non ti aspetti

Michele Masneri

Marginali, eccentrici, dimenticati, defunti o giovanissimi, sono soprattutto gli artisti scelti dai due curatori, Sarah Cosulich e Stefano Collicelli Cagol, con un criterio: fare una mostra eclettica, sbilanciata, fuori da quel centro ideale che è il canone dell’arte italiana dagli anni Sessanta a oggi

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Nella capitale sonnecchiosa più che attonita che attende il lockdown o semi-lockdown, ecco che irrompe la Quadriennale, e lì sorpresa: al palazzo delle Esposizioni, una mostra fresca ed enorme e sgangherata il giusto, e fa specie trovarvi tematiche contemporanee, in quell’avamposto, simbolo di un passato prossimo (l’âge d’or veltroniano, e poi anche le più recenti grandi mostre come quella su Pasolini) e via verso decadenze da National Geographic. Però adesso arriva questa Quadriennale intitolata “Fuori”, con rimando allo storico movimento di liberazione omosessuale, e c’è dunque un’impronta irrimediabilmente queer, o come piace ai detrattori, “gender”; e tematiche di squisita contemporaneità, femminismo, anti colonialismo, patriarcato, insomma un non plus ultra di antifa che colpisce, tra l’opus compositum (sampietrino/asfalto) che è la realizzazione più creativa della Capitale (intesa come comune) degli ultimi anni. Marginali, eccentrici, dimenticati, defunti o giovanissimi, sono soprattutto gli artisti scelti dai due curatori, Sarah Cosulich e Stefano Collicelli Cagol, con un criterio: fare una mostra “eclettica, sbilanciata, fuori da quel centro ideale che è il canone dell’arte italiana dagli anni Sessanta a oggi”, dice Colicelli Cagol. Dunque sulla carta  celebrazione dello spirito della Quadriennale nata nel ’27 per dare alla Capitale una vetrina sul migliore contemporaneo, ma oggi soprattutto nemesi (quasi cent’anni dopo) dello slancio dei padri fondatori (in orbace), con tutta una vetrina molto fluida e non binaria che sarebbe piaciuta pochissimo a quei baldi gerarchi. Si parte, nel catalogo, con la scheda di partecipazione degli artisti alla terza Quadriennale, quella del ‘39, con vasto questionario di autocertificazione non per Covid ma per eventuali parentele ebraiche. E poi, via, per lo sterminato allestimento povero, come vogliono i tempi, ma pratico ed elegante: gli “Stivali Italia” di Cinzia Ruggeri, che sfottevano il made in Italy nel 1986 dunque all’apice, e gli abiti per salami e lampadine. E le sculturone falliche di Lydia Silvestri, allieva di Marino Marini, tra Henry Moore e Jacovitti. E le romantiche escursioni del collettivo odierno TomBoys Don’t Cry, tra cui lenti a contatto rinsecchite , testimonianza di sguardi amorosi, accanto al romanzo di Mario Mieli, l’introvabile e perseguitato “Risveglio dei faraoni”. E le celebri fotografie monumentali del cimitero di Staglieno, con figlie e madri e nonne come si vuole attonite di fronte a maschi scultorei soprattutto commendatori e cavalieri del lavoro prematuramente scomparsi, e invece dei bebé sanguinolenti che fuoriescono da vagine in simmetriche foto da sala-parto, nel bianco e nero testimoniale della quasi centenaria Lisetta Carmi. E il video “No Head Man” di Monica Bonvicini,  rappresentazione del maschio middleman sperduto in uno spazio bianco, che si aggira cercando di ritrovare la strada, e non riuscendo dà delle capocciate al muro oppure  tira fuori come ultima ratio il pistolino (ma finisce comunque malissimo). Ricorda un po’ ciò che succede a poche centinaia di metri tra tanti maschioni di Lega e Fratelli d’Italia che si stravolgono per la legge Zan. E qui il queer o gender la  fa da padrone, anche in modalità vintage, con la scoperta del meraviglioso mondo nascosto di Sylvano Bussotti, grande vecchio molto operistico che si sapeva compositore e invece si scopre autore di collage degni di Bob Mizer (si apprende che da piccolo era libero di scorrazzare agli Uffizi, grazie a un papà usciere). Molto spazio è dedicato al tema coloniale, con le pellicole del Luce col Duce e il Re a sfilare davanti alle truppe (poi ri-filmate in colori acidi) di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, e soprattutto con la ricognizione del DAAR (Decolonizing Architecture Art Residency), coppia composta da Sandi Hilal e Alessandro Petti, che svela con vasto apparato fotografico l’incredibile opera di colonizzazione “interna” e sovranista portata avanti dal fascismo in Sicilia. Nel 1940 infatti cominciarono i lavori dell’Ente di colonizzazione del latifondo siciliano, che riciclava i format costruttivi-architettonici usati in Africa con le architetture razionaliste di Asmara (e oggi, ecco paesaggi assolutamente africani, e borghi belli e pronti da trasformare in resort e masserie e bagli scicchissimi, anche per nostalgici). Mancano solo le black lives matter, ma non si può avere tutto (però c’è Gucci che si sobbarca il costo dei biglietti, sponsorizzando anche questa iniziativa, come praticamente qualunque cosa in Italia, tipo Mes).

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Nella capitale sonnecchiosa più che attonita che attende il lockdown o semi-lockdown, ecco che irrompe la Quadriennale, e lì sorpresa: al palazzo delle Esposizioni, una mostra fresca ed enorme e sgangherata il giusto, e fa specie trovarvi tematiche contemporanee, in quell’avamposto, simbolo di un passato prossimo (l’âge d’or veltroniano, e poi anche le più recenti grandi mostre come quella su Pasolini) e via verso decadenze da National Geographic. Però adesso arriva questa Quadriennale intitolata “Fuori”, con rimando allo storico movimento di liberazione omosessuale, e c’è dunque un’impronta irrimediabilmente queer, o come piace ai detrattori, “gender”; e tematiche di squisita contemporaneità, femminismo, anti colonialismo, patriarcato, insomma un non plus ultra di antifa che colpisce, tra l’opus compositum (sampietrino/asfalto) che è la realizzazione più creativa della Capitale (intesa come comune) degli ultimi anni. Marginali, eccentrici, dimenticati, defunti o giovanissimi, sono soprattutto gli artisti scelti dai due curatori, Sarah Cosulich e Stefano Collicelli Cagol, con un criterio: fare una mostra “eclettica, sbilanciata, fuori da quel centro ideale che è il canone dell’arte italiana dagli anni Sessanta a oggi”, dice Colicelli Cagol. Dunque sulla carta  celebrazione dello spirito della Quadriennale nata nel ’27 per dare alla Capitale una vetrina sul migliore contemporaneo, ma oggi soprattutto nemesi (quasi cent’anni dopo) dello slancio dei padri fondatori (in orbace), con tutta una vetrina molto fluida e non binaria che sarebbe piaciuta pochissimo a quei baldi gerarchi. Si parte, nel catalogo, con la scheda di partecipazione degli artisti alla terza Quadriennale, quella del ‘39, con vasto questionario di autocertificazione non per Covid ma per eventuali parentele ebraiche. E poi, via, per lo sterminato allestimento povero, come vogliono i tempi, ma pratico ed elegante: gli “Stivali Italia” di Cinzia Ruggeri, che sfottevano il made in Italy nel 1986 dunque all’apice, e gli abiti per salami e lampadine. E le sculturone falliche di Lydia Silvestri, allieva di Marino Marini, tra Henry Moore e Jacovitti. E le romantiche escursioni del collettivo odierno TomBoys Don’t Cry, tra cui lenti a contatto rinsecchite , testimonianza di sguardi amorosi, accanto al romanzo di Mario Mieli, l’introvabile e perseguitato “Risveglio dei faraoni”. E le celebri fotografie monumentali del cimitero di Staglieno, con figlie e madri e nonne come si vuole attonite di fronte a maschi scultorei soprattutto commendatori e cavalieri del lavoro prematuramente scomparsi, e invece dei bebé sanguinolenti che fuoriescono da vagine in simmetriche foto da sala-parto, nel bianco e nero testimoniale della quasi centenaria Lisetta Carmi. E il video “No Head Man” di Monica Bonvicini,  rappresentazione del maschio middleman sperduto in uno spazio bianco, che si aggira cercando di ritrovare la strada, e non riuscendo dà delle capocciate al muro oppure  tira fuori come ultima ratio il pistolino (ma finisce comunque malissimo). Ricorda un po’ ciò che succede a poche centinaia di metri tra tanti maschioni di Lega e Fratelli d’Italia che si stravolgono per la legge Zan. E qui il queer o gender la  fa da padrone, anche in modalità vintage, con la scoperta del meraviglioso mondo nascosto di Sylvano Bussotti, grande vecchio molto operistico che si sapeva compositore e invece si scopre autore di collage degni di Bob Mizer (si apprende che da piccolo era libero di scorrazzare agli Uffizi, grazie a un papà usciere). Molto spazio è dedicato al tema coloniale, con le pellicole del Luce col Duce e il Re a sfilare davanti alle truppe (poi ri-filmate in colori acidi) di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, e soprattutto con la ricognizione del DAAR (Decolonizing Architecture Art Residency), coppia composta da Sandi Hilal e Alessandro Petti, che svela con vasto apparato fotografico l’incredibile opera di colonizzazione “interna” e sovranista portata avanti dal fascismo in Sicilia. Nel 1940 infatti cominciarono i lavori dell’Ente di colonizzazione del latifondo siciliano, che riciclava i format costruttivi-architettonici usati in Africa con le architetture razionaliste di Asmara (e oggi, ecco paesaggi assolutamente africani, e borghi belli e pronti da trasformare in resort e masserie e bagli scicchissimi, anche per nostalgici). Mancano solo le black lives matter, ma non si può avere tutto (però c’è Gucci che si sobbarca il costo dei biglietti, sponsorizzando anche questa iniziativa, come praticamente qualunque cosa in Italia, tipo Mes).

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