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Due libri celebrano la leggendaria Jane Jacobs

L'antenata dei no-Tav

Manuel Orazi

E' stata la versione americana di Italia Nostra: da noi c'erano le contesse e gli scrittori “borghesi” come Giorgio Bassani, nella Grande mela invece Eleanor Roosevelt e Philip Johnson che la affiancò in piazza, elegantissimo as usual, nella battaglia contro la demolizione della Penn Station del 1963

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Fino agli anni 60 le donne iscritte nei corsi di Architettura erano un’assoluta minoranza, massimamente nell’urbanistica (campo più prossimo alla politica e dunque ancora più maschile). Tuttavia una ragazza dal cipiglio caparbiamente protestante, femminista fin dalle superiori ma poi anche madre di tre figli (nonché moglie di un architetto), metterà a soqquadro le politiche urbane date per assodate negli anni della affluent society e della crescita incontrollata delle città dei baby boomer. Dalla sua casa nel Greenwich Village, l’unica zona di Manhattan dove la griglia imperante si piega (e infatti la città ha ancora una vaga aria di paese, rifugio per artisti e intellettuali da Ed Hopper a Bob Dylan), Jane Jacobs comincia a scrivere critiche sempre più appuntite per Architectural Forum e altre riviste, contro il grande programma di urban renewal che poi è sempre stata la vecchia ricetta per risolvere i problemi dei ghetti e del degrado urbano sociale fin dai tempi del barone Haussmann: la demolizione e ricostruzione, a Philadelphia come Chicago. Solo che negli Usa, a differenza che in Europa, il tutto era ingigantito e amplificato dall’uso di massa dell’automobile, per cui autostrade a venti corsie dovevano attraversare il cuore delle vecchie città del nuovo mondo, stravolgendole. L’antagonista nelle battaglie della Jacobs, specie in quella per la salvezza di Washington Square, era Robert Moses, ideatore appunto della Lower Manhattan Expressway che avrebbe appunto dovuto stravolgere quella piazza iconica. Jacobs, spalleggiata da molte altre personalità influenti come Eleanor Roosevelt, la spuntò riuscendo addirittura a farla pedonalizzare e vincendo persino una borsa di studio della Fondazione Rockefeller, studiando per tre anni la storia dei rinnovamenti urbani americani, fino alla pubblicazione di Vita e morte delle grandi città americane (1961), tradotta pochi anni dopo anche in italiano da Einaudi. L’impatto fu enorme, sia da parte degli speculatori e proprietari di giornali, sia da parte dei professori che in teoria erano anche d’accordo con lei, ma gli insulti fioccarono nelle recensioni e nei convegni. Non si era mai vista una casalinga che obiettasse alla politica di rinnovamento dal punto di vista della vita di quartiere, di chi fa la spesa tutti i giorni, di chi porta i figli a scuola a piedi, insomma il punto di vista delle donne, principalmente. Moses, come un tirannosauro punto sul piede, cambierà obiettivo per la sua expressway, mentre Jacobs intensificherà i suoi studi e le sue battaglie in modo del tutto libero e inflessibile. Simpatizzava infatti per i sindacati, ma restava anticomunista; era nei fatti piuttosto femminista, ma con tre figli e restando sempre sposata con lo stesso uomo, ecc. I suoi concetti di “capitale sociale”, “occhi sulla strada”, “usi primari misti”, la sua critica al funzionalismo, sono diventati pian piano i nuovi pilastri dell’urbanistica progressista internazionale, gli stessi fra l’altro di Denise Scott Brown (moglie di Robert Venturi, professoressa a Penn e poi a Yale), che come la Jacobs si era opposta alle demolizioni dei quartieri neri di Philadelphia. Tutti questi temi si ritrovano nel libretto appena uscito "Città e libertà", a cura di Michela Barzi, (Elèuthera 16 euro) e quello ancora più smilzo "La mia vita le mie città. Conversazione con Eleonor Wachtel" (Castelvecchi, 9 euro). Jacobs è stata insomma più che la nonna dei movimenti No Tav, la versione americana di Italia Nostra: da noi le contesse e gli scrittori “borghesi” come Giorgio Bassani, nella Grande mela invece Eleanor Roosevelt e Philip Johnson che la affiancò in piazza, elegantissimo as usual, nella battaglia contro la demolizione della Penn Station del 1963. La sua strada però s’intrecciò inevitabilmente con quella dei diritti civili e, dopo un arresto pretestuoso a una manifestazione, Jacobs emigrò con tutta la famiglia a Toronto dopo la celebre marcia contro la guerra nel Vietnam del 1968 – la paura che i due figli maschi venissero spediti laggiù, ebbe il sopravvento. Ovviamente anche in Canada riuscì a fermare un paio di progetti megalomani. 
 

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Fino agli anni 60 le donne iscritte nei corsi di Architettura erano un’assoluta minoranza, massimamente nell’urbanistica (campo più prossimo alla politica e dunque ancora più maschile). Tuttavia una ragazza dal cipiglio caparbiamente protestante, femminista fin dalle superiori ma poi anche madre di tre figli (nonché moglie di un architetto), metterà a soqquadro le politiche urbane date per assodate negli anni della affluent society e della crescita incontrollata delle città dei baby boomer. Dalla sua casa nel Greenwich Village, l’unica zona di Manhattan dove la griglia imperante si piega (e infatti la città ha ancora una vaga aria di paese, rifugio per artisti e intellettuali da Ed Hopper a Bob Dylan), Jane Jacobs comincia a scrivere critiche sempre più appuntite per Architectural Forum e altre riviste, contro il grande programma di urban renewal che poi è sempre stata la vecchia ricetta per risolvere i problemi dei ghetti e del degrado urbano sociale fin dai tempi del barone Haussmann: la demolizione e ricostruzione, a Philadelphia come Chicago. Solo che negli Usa, a differenza che in Europa, il tutto era ingigantito e amplificato dall’uso di massa dell’automobile, per cui autostrade a venti corsie dovevano attraversare il cuore delle vecchie città del nuovo mondo, stravolgendole. L’antagonista nelle battaglie della Jacobs, specie in quella per la salvezza di Washington Square, era Robert Moses, ideatore appunto della Lower Manhattan Expressway che avrebbe appunto dovuto stravolgere quella piazza iconica. Jacobs, spalleggiata da molte altre personalità influenti come Eleanor Roosevelt, la spuntò riuscendo addirittura a farla pedonalizzare e vincendo persino una borsa di studio della Fondazione Rockefeller, studiando per tre anni la storia dei rinnovamenti urbani americani, fino alla pubblicazione di Vita e morte delle grandi città americane (1961), tradotta pochi anni dopo anche in italiano da Einaudi. L’impatto fu enorme, sia da parte degli speculatori e proprietari di giornali, sia da parte dei professori che in teoria erano anche d’accordo con lei, ma gli insulti fioccarono nelle recensioni e nei convegni. Non si era mai vista una casalinga che obiettasse alla politica di rinnovamento dal punto di vista della vita di quartiere, di chi fa la spesa tutti i giorni, di chi porta i figli a scuola a piedi, insomma il punto di vista delle donne, principalmente. Moses, come un tirannosauro punto sul piede, cambierà obiettivo per la sua expressway, mentre Jacobs intensificherà i suoi studi e le sue battaglie in modo del tutto libero e inflessibile. Simpatizzava infatti per i sindacati, ma restava anticomunista; era nei fatti piuttosto femminista, ma con tre figli e restando sempre sposata con lo stesso uomo, ecc. I suoi concetti di “capitale sociale”, “occhi sulla strada”, “usi primari misti”, la sua critica al funzionalismo, sono diventati pian piano i nuovi pilastri dell’urbanistica progressista internazionale, gli stessi fra l’altro di Denise Scott Brown (moglie di Robert Venturi, professoressa a Penn e poi a Yale), che come la Jacobs si era opposta alle demolizioni dei quartieri neri di Philadelphia. Tutti questi temi si ritrovano nel libretto appena uscito "Città e libertà", a cura di Michela Barzi, (Elèuthera 16 euro) e quello ancora più smilzo "La mia vita le mie città. Conversazione con Eleonor Wachtel" (Castelvecchi, 9 euro). Jacobs è stata insomma più che la nonna dei movimenti No Tav, la versione americana di Italia Nostra: da noi le contesse e gli scrittori “borghesi” come Giorgio Bassani, nella Grande mela invece Eleanor Roosevelt e Philip Johnson che la affiancò in piazza, elegantissimo as usual, nella battaglia contro la demolizione della Penn Station del 1963. La sua strada però s’intrecciò inevitabilmente con quella dei diritti civili e, dopo un arresto pretestuoso a una manifestazione, Jacobs emigrò con tutta la famiglia a Toronto dopo la celebre marcia contro la guerra nel Vietnam del 1968 – la paura che i due figli maschi venissero spediti laggiù, ebbe il sopravvento. Ovviamente anche in Canada riuscì a fermare un paio di progetti megalomani. 
 

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