Duchamp portatile alla Galleria Casoli-De Luca

Michele Masneri

A Roma in mostra disegni, progetti, fotografie da una grande collezione privata dell’artista francese che inventò il ready made

Fare gli artisti oggi: si ha sempre la sensazione che basti studiare certi geni del passato, guardare gli archivi, copiare (come gli stilisti).

 

Così, per chi fosse convinto che sia stato Warhol a creare un certo “sistema dell’arte”, e considerasse Marcel Duchamp solo il bizzarro inventore di sanitari poi diventati cool e mainstream, basta andare a Roma alla Galleria Casoli-De Luca per vedere esposte un centinaio di opere e operine che spiegano molto del mondo artistico ma anche industriale duchampiano.

 

Morto cinquant’anni fa, nell’ottobre del 1968, Duchamp s’era stufato presto della pittura semplice e dell’esemplare inimitabile, scoprendo invece velocemente il bello dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Si appassiona della tecnica, della fotografia, del design. Elabora così un universo di multipli e “famiglie” che qui stanno tutte in mostra, in un “esploso” della sua produzione poliedrica e tridimensionale.

 

Ecco la “Boîte Alerte”, la scatola erotica di gadget che realizza nel ’59 per l’Exposition International du Surréalisme insieme a Breton alla galleria Cordier: uno scatolone tipo quello dei Ferragnez sul volo Milano-Noto, con dentro però fotografie, dischi, disegni, buste con scritto “per uso esterno” e “avviso di sofferenza”, ammennicoli erotici dei più misteriosi (anche un collant, e delle presine maschio-femmina con pelo simil-pubico), insomma frammenti di un discorso amoroso in 3D.

 

E la “Boîte verte”, scatola verde presente sia nella versione entry level che in quella di lusso a tiratura limitata, in 20 esemplari con iniziali d’oro, e la “Boîte-en-Valise”, museino portatile composto da 68 pezzi, compresa una piccola versione del suo orinatoio, e una del ready made rettificato della Gioconda di Leonardo con barba e baffi e l’iscrizione “L.H.O.O.Q.” (gioco di parole per “Elle a chaud au cul”).

 

Tutto in miniatura e trasportabile come bagaglio a mano, catalogo della sua opera e “work in progress” nella preparazione del suo “signature dish” verso il quale è tutto provvisorio: il “Grande Vetro”, o “La Sposa messa a nudo dai suoi Scapoli, anche”, antologia-cosmogonia tra pittura su vetro, ingranaggi, cubismi, macchinari, mini-samples dei suoi pezzi forti (oggi al museo di Philadelphia, ma così meno interessante dei suoi campionari preparatori). In mostra (e in vendita, collezione di un fortunato proprietario), anche: sedici foto uniche di Ugo Mulas in cui si vede Duchamp hipster ante litteram con camicia a righe, piccole genialate di marketing artistico che fanno impallidire artisti d’oggi – carta di cioccolatino argentata ideata per un opening, con sopra uno dei tanti calembour, qui aperta come un raviolo, incommensurabile ricompensa per collezionisti e case dove evidentemente non si butta mai niente.

 

Duchamp tra tutti i multipli ha un doppio anche di se stesso: la mostra si chiama infatti “By or Of Marcel Duchamp or Rrose Sélavy”, dove Madame Sélavy era il suo alter ego femminile imparruccato-gender (oggi sarebbe molto vituperato). Infine c’è anche una porta, la famosa porta dell’appartamento parigino duchampiano, porta singola che apre due stanze, poi musealizzata, e oggetto di un classico topos à la Alberto Sordi: alla Biennale del 1978 scambiata per serramento non autoriale, dunque subito ridipinto da solerti imbianchini veneziani con scandalo conseguente. Tutto in vendita, qui, e potendo ci si penserebbe, come bene rifugio, soprattutto le scatole e le valigie, comode anche per scappare all’estero in vista di imminenti default o veloci sovvertimenti democratici.

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